1. Il primo passaggio è quello di un ulteriore peggioramento delle condizioni di accesso e di utilizzo delle strutture e dei servizi da parte dei pazienti e delle loro famiglie, che sono state misurate mettendo a confronto le esperienze dei care-giver, rilevate nel 2017 con quelle di 3 anni prima.
Nel Rapporto 2016 si è registrato un processo di “deflazione di sistema” quale risultato del progressivo accumularsi nel tempo degli effetti del controllo della spesa, del taglio dei costi che ne è derivato, del blocco delle assunzioni e soprattutto della mancata ristrutturazione e riorganizzazione dei servizi, la quale ha inevitabilmente provocato un “affaticamento” crescente dei pazienti e delle loro famiglie nell’accesso e nell’utilizzo delle diverse prestazioni.
Tale situazione risulta ancora più evidente se si considera l’andamento di alcuni fenomeni registrati nell’ultimo anno e paragonati con quelli posti sotto osservazione nel triennio precedente, visto che:
- l’insoddisfazione nei confronti del sistema sanitario della propria Regione sale dal 21,3% nel 2015 al 32,2% nel 2017 (che però diventa il 51,3% nel Mezzogiorno) e parallelamente l’insoddisfazione nei confronti degli ospedali sale, in un solo anno, dal 22,7% al 30,2% (ma arriva al 50,6% nel Sud);
- la scarsa e/o nulla sensazione di “essere messi al centro” come pazienti lievita a sua volta dal 19,3% del 2014 al 32,4% del 2017 (ma al 41,3% nel Mezzogiorno);
- il peggioramento del trattamento dei pazienti, in particolare nelle strutture ospedaliere pubbliche, viene percepito in crescita, con riferimento agli ultimi due anni, passando dal 15,2% del 2015 al 18,0% del 2017;
- la debolezza di una prima “giunzione”, quella che riguarda il momento della scelta dell’ospedale, nella quale risulta difficile trovare informazioni affidabili sulla struttura verso cui dirigersi, diventa ancora più pronunciata (situazione questa che viene dichiarata dal 29,7% dei casi nel 2014, ma nel 38,2% nel 2017); mentre si afferma che il medico di medicina generale non è stato in grado di indirizzare adeguatamente il paziente (passando dal 27,3% al 32,9% nel triennio) e infine si ammette come si sia dovuto aspettare troppo a lungo l’accesso ai servizi, poiché non c’era posto al momento del bisogno (e il peggioramento è evidente se si considera che il 24,2% degli intervistati era di questa opinione nel 2014, ma sale al 54,1% nel 2017);
- una seconda giunzione cioè quella che dovrebbe collegare l’uscita dall’ospedale con l’eventuale ingresso in altre strutture che si rivelino necessarie, diventa ancora più critica: sia che si tratti di completare il percorso di cura (dal 15,4% del 2014 al 28,9% del 2017) sia che si debba ricorrere alla riabilitazione post-ricovero (dal 21,7% al 25,6%) oppure che si debba passare ai servizi di tipo socioassistenziale (dal 18,1% al 21,2%);
- ed infine il rimando e/o la rinuncia ad una o più prestazioni sanitarie da parte del care-giver e/o di altri membri della famiglia interessa, nel 2017, il 26,8% degli aventi bisogno e soprattutto tale fenomeno tende a sommare rinunce e rimandi già sperimentati dalle stesse persone nei due anni precedenti (20,0% nel 2016 e 16,5% nel 2015).
2. Il secondo passaggio da considerare è quello del graduale consolidamento di una strategia di reazione “a tutto tondo” da parte degli utenti che – attraverso i loro comportamenti – hanno cercato di far fronte al logoramento progressivo delle prestazioni da parte del sistema sanitario pubblico.
Tale strategia risulta chiaramente leggibile nell’evoluzione dei comportamenti posti in atto, secondo quanto dichiarato da parte dei care-giver come pure da parte di utenti e cittadini. Infatti:
- il ricorso ad ospedali privati accreditati o a cliniche private a pagamento, in alternativa alle strutture pubbliche, risulta essere una decisione che si stabilizza, negli ultimi tre anni, attorno al 41% dei care-giver per la prima scelta e al 20% per la seconda;
- l’utilizzo di strutture ospedaliere presenti in altre Regioni rispetto a quella di residenza risulta a sua volta in crescita: i care-giver intervistati che hanno fatto e/o sono orientati a fare concretamente tale esperienza o a prenderla seriamente in considerazione in caso di bisogno era del 28,2% nel 2016, ma diventa il 47,7% nel 2017: tale orientamento viene del resto confermato dai dati oggettivi della mobilità sanitaria, espressa attraverso il numero dei ricoveri extraregione sul totale dei ricoveri nazionali che sale dall’8,2% del 2010 all’8,9% del 2014 e al 9,2% del 2015, mentre diminuisce il totale dei ricoveri nella misura del 18,7%;
- aumenta in parallelo la propensione a scegliere tra varie possibilità al momento del ricovero ospedaliero nel corso degli ultimi otto anni, secondo quanto dichiarato dagli utenti effettivi delle strutture di cura (dal 21,2% del 2009 al 29,8% del 2017);
- come pure cresce nel tempo il livello di consapevolezza circa l’opportunità di utilizzare ospedali privati accreditati in alternativa a quelli pubblici senza oneri aggiuntivi per gli utenti (dal 35,5% del 2009 al 39,3% del 2017), di rivolgersi ad ospedali situati al di fuori della propria Regione (da parte di più del 30% dei cittadini intervistati) o addirittura di recarsi in strutture situate in altri Paesi dell’Unione Europea (dal 14,1% del 2013 al 18,5% del 2017).
In altri termini si sta gradualmente affermando una sorta di “territorializzazione” progressiva dell’ospedale, di cui si ha in fondo più fiducia rispetto ai servizi Asl e allo stesso medico di base: con ciò ribadendo la propensione più generale di cittadini utenti a “votare con i piedi”, adottando cioè quei comportamenti ritenuti utili (a torto o a ragione) per far fronte alle limitazioni quantitative o alle insufficienze qualitative dei servizi offerti.
3. Il terzo passaggio interpretativo è che tra le strategie di reazione poste in atto dai pazienti e dalle loro famiglie, assume un’importanza particolare quella di ricorrere alle spese sanitarie out-of-pocket. Esse sono cresciute (a prezzi correnti) nell’ultimo decennio nella misura del 22,4%, mentre la spesa sanitaria pubblica totale è lievitata del 14,2% nello stesso periodo e le spese per consumi totali delle stesse famiglie si sono incrementate ancora meno e cioè dell’11,1%. Ciò conferma sia l’apporto economico ai servizi pubblici da parte degli utenti attraverso il pagamento dei ticket o altre compartecipazioni di spesa sia la scelta di acquistare prodotti e servizi direttamente sul mercato, che possono integrare e/o sostituire quelli che vengono offerti dalle strutture pubbliche. È infine il caso di sottolineare come l’accelerazione della spesa sanitaria ouf-of-pocket sia particolarmente evidente negli ultimi tre anni indicati, proprio in corrispondenza dei fenomeni di razionamento dei servizi e di peggioramento dei medesimi da parte del sistema pubblico.
Se poi si considerano i risultati dell’indagine condotta ad hoc su circa 15 voci specifiche di spesa out-of-pocket è possibile rilevare come:
- il 77,4% dei care-giver dichiari di aver sostenuto una o più spese sanitarie e/o assistenziali per sé o per gli altri membri della famiglia negli ultimi dodici mesi pur avendo avuto accesso ai servizi delle strutture pubbliche e/o private accreditate: si tratta di quasi 20 milioni di famiglie, con una spesa totale dichiarata di 13,0 miliardi di euro di cui 9,9 per spese sanitarie e 3,1 per spese assistenziali;
- mentre il 66,7% dei care-giver dichiari a sua volta di aver sostenuto delle spese sanitarie e/o assistenziali per sé e/o per altri membri della famiglia negli ultimi dodici mesi per l’accesso a servizi di tipo privato a pagamento pieno: si tratta in questo casa di 17,2 milioni di famiglie coinvolte, con una stima di spesa pari a quasi 19,0 miliardi di euro di cui il 16,5 miliardi di euro per spese sanitarie e 2,5 miliardi di euro per spese assistenziali.
Quanto alle ragioni dichiarate dai care-giver per le spese sanitarie out-of-pocket sostenute, si trovano al 1° posto le liste di attesa troppo lunghe (46,5%), al 2° posto i farmaci non più prescrivibili oppure quelli che si acquistano perché è più rapido farlo direttamente senza passare dal medico di base (31,7%) oppure, al 3° posto, perché si preferisce rivolgersi direttamente allo specialista di cui ci si fida (28,7%), a cui però vanno aggiunte le difficoltà burocratiche da affrontare presso le strutture pubbliche (4° posto, col 13,0%) nonché la non adeguata organizzazione da parte dei servizi pubblici (5° posto, col 7,8%).
Un dato interessante infine è quello degli oneri sostenuti dalle famiglie per ticket e compartecipazioni varie alla spesa per l’accesso ai servizi pubblici (farmaci, analisi di laboratorio, accertamenti diagnostici, visite specialistiche, accesso al Pronto Soccorso, prestazioni intramoenia) che risulterebbe di 7,6 miliardi di euro. Tale importo dunque va ad aggiungersi alle risorse del Fondo Sanitario Nazionale: nell’anno 2016 quest’ultimo era pari a 113,7 miliardi di euro, a cui si dovrebbero aggiungere i 7,6 miliardi appena ricordati che porterebbero, con un incremento del 6,7%, a 121,3 miliardi il budget reale, comprensivo dell’apporto fornito dai pazienti e dalle loro famiglie.
4. Il quarto passaggio interpretativo riguarda l’individuazione di alcune specifiche “anomalie” qualora si metta a confronto l’andamento di alcune voci dei Conti Economici delle Aziende Ospedaliere degli ultimi quattro anni, a cui è seguito un approfondimento delle cosiddette attività “a funzione” al fine di individuare delle possibili aree di inefficienza presenti all’interno della “macchina” ospedaliera pubblica.
In particolare le attività “a funzione” arrivano a superare non di rado il 40% dei Ricavi della Produzione ospedaliera + i Ticket, ma possono arrivare anche al 50% e talvolta al 60% e oltre. L’analisi in dettaglio di questa voce ha permesso di stimare gli eventuali extraricavi incorporati che possono rappresentare delle forme implicite di ripianamento (parziale o totale) di bilancio. Il valore di tali extraricavi, stimati per le Aziende Ospedaliere e per gli Ospedali a gestione diretta, può raggiungere, nel 2016, una cifra che si colloca all’interno di una “forchetta” che va dai 3,2 ai 4,1 miliardi di euro, ammontare questo che inciderebbe tra il 6,0% e il 7,5% della spesa totale per gli ospedali pubblici.
5. L’insieme delle considerazioni sin qui richiamate consente di affermare che il Patto sul Welfare, basato sui principi di universalità e di solidarietà, di cui abbiamo goduto per quasi quarant’anni risulta oggi significativamente indebolito ed anzi corre il rischio di subire una seria rottura. Non possono infatti bastare le strategie di tipo reattivo, messe in atto dagli utenti, per compensare le crescenti debolezze dell’attuale Servizio Sanitario Nazionale.
La verità è che sarebbe maturo il tempo per affrontare il passaggio (condiviso) ad un Patto sul Neo-Welfare, poiché esiste una “forbice” non facilmente ricomponibile tra l’aumento dei bisogni attuali e futuri (per l’invecchiamento della popolazione, per le innovazioni tecnologiche e farmacologiche, per la crescita delle attese dei cittadini) e la disponibilità delle risorse pubbliche corrispondenti. Il che richiederebbe per l’appunto di ripensare il nostro sistema di protezione sociosanitaria che dovrebbe mantenere il più possibile il suo carattere universalistico e solidale per quanto riguarda i bisogni più seri e gravi, ma dovrebbe in parallelo introdurre un “vincolo di responsabilità” per tutti i protagonisti in gioco, nessuno escluso: sistema pubblico, sistema assicurativo, sistema della rappresentanza aziendale e dei lavoratori, singoli cittadini e famiglie.
Un possibile Patto sul Neo-Welfare dovrebbe di conseguenza basarsi su una triplice saldatura:
- quella che deve legare il finanziamento pubblico alla responsabilità della “macchina” sanitaria nell’affrontare una sua profonda ristrutturazione e riorganizzazione che contemperi il controllo/taglio dei costi con la tenuta dei servizi rivolti agli utenti;
- quella di un non più rimandabile raccordo tra sanità e assistenza che implica la costruzione di un “sistema di giunzioni” efficace sia in ingresso che in uscita rispetto a strutture, servizi e prestazioni;
- ed infine quella che concerne una relazione molto più articolata e fluida rispetto all’uniformità e alla rigidità delle forme di welfare che abbiamo conosciuto sino ad oggi così da distribuire una maggiore responsabilità fra tutti i soggetti appena ricordati.
Fonte: Ufficio Stampa Ermeneia