Le Emozioni dei Film Candidati agli Oscar 2017
di Donatella Romani
C'è bisogno di verità, di autenticità in una società fatta di fake news, di haters, di post truth, c'è bisogno di storie che raccontino vite speciali, ma anche un po' comuni, vite che hanno testimoniato passi epocali, vite che hanno dato voce ai silenzi, vite che hanno avuto il coraggio di sfidare lo stigma e lo stereotipi. Sono molti i film in nomination per l'Oscar 2017 ad essere "based on a true story" e quando sono tratti da opere teatrali o da sceneggiature originali hanno comunque al centro un uomo o una donna che ha messo la propria verità, i propri valori, i propri ideali e i propri sogni davanti al mondo, e non ha avuto paura di fare un passo avanti e restare solo (lo fa Amy Adams quando si spoglia della tuta protettiva e va incontro agli alieni, lo fa Andrew Gardfield quando non imbraccia il fucile sul campo di battaglia, lo fa Casey Affleck quando si aggrappa ad un dolore che va oltre il tempo e lo spazio, lo fa Viola Davis quando rimane accanto ad un marito che l'ha umiliata...) Ci sono anche molti film black quest'anno dopo la polemica dello scorso anno in cui nessun attore o attrice di colore avevano ricevuto nomination, e ci sono temi sociali forti (i "lost children" indiani, l'integrazione razziale, l'accoglienza di chi viene da lontano, le banche che rubano il futuro, l'insensatezza della guerra e l'omosessualità) ma c'è spazio anche per un musical inusuale e iconico come La La Land che viene dato per favorito forse perchè rappresenta sì il sogno americano, ma un sogno dove oggi non si arriva dritti alla meta ricoperti d'oro e felicità, ma si perde una parte di sè strada facendo, quel lungo malinconico "what if"..., che sarebbe successo se..., domanda che potrebbe chiudere ogni pellicola in nomination - che sarebbe successo se non avesse resistito alle angherie il soldato Desmond Russ, che sarebbe successo se avesse messo il parafuoco Lee Chandler, che sarebbe successo se non si fosse addormentato il piccolo Saroo...a testimonianza che la storia, grande e piccola, è fatta da attimi in cui il destino si compie a nostra insaputa, e a noi resta solo da armarsi di coraggiosa e sincera resilienza. E la vittoria di Moonlight è la testimonianza più viva e convincente del fatto che trovare la strada che porta a se stessi, attraverso una società complessa e spesso ostile, attraverso pregiudizi e fragilità, è la più frastagliata delle nascite e che nessun giovane deve sentirsi diverso, perchè diventare adulti è e sempre sarà una sfida titanica (in cui gli adulti dovrebbero tornare ad avere un ruolo perso fra distratte assenze o asfissianti rifiuti).
Arrival - di Denis Villeneuve - con Amy Adams e Jeremy Renner
Parte lento, infarcito di stilemi e paradigmi obbligatori per un film di fantascienza, ma dopo la prima ora si libera dei laccioli e dei debiti con tanti capolavori del passato e preme l'acceleratore su un terreno più intimo e dolente che ci ricorda come la memoria sia parte del nostro futuro, che l'amore non ha bisogno di garanzie per saltare nel precipizio e che solo parlandosi e cercando di comprendere la lingua dell'altro da sè si può sperare di crescere e di maturare. Il linguaggio del resto è il cuore del plot, un linguaggio arcano che nell'interpretazione può essere foriero di amore o di odio, di pace o di guerra, perchè sta a noi tendere la mano o voltare le spalle a chi abbiamo di fronte, che sia un alieno o un vicino di casa. Amy Adams è materna, avvolgente e accogliente nell'andare incontro a chi arriva da lontano portando forse un dono forse un'arma, e i due alieni (Tom e Jerry in omaggio ad una delle coppie storiche dell'immaginario collettivo) sono fluidi, liquidi, ambigui se si vuole o misteriosi e affascinanti come tutto ciò che non si conosce, e solo chi ha conosciuto - o conoscerà - il dolore può far da ponte fra la ragione e il cuore, fra la critica e l'istinto, fra la bellezza del cosmo in cui fluttuiamo uniti da un tempo liquido e circolare e la cinica lettura politica e militare. Hannah è il futuro che ci aspetta, un futuro senza prospettive forse, ma che ha il diritto di nascere e di crescere senza paura di sbagliare. Voto 8
Parte lento, infarcito di stilemi e paradigmi obbligatori per un film di fantascienza, ma dopo la prima ora si libera dei laccioli e dei debiti con tanti capolavori del passato e preme l'acceleratore su un terreno più intimo e dolente che ci ricorda come la memoria sia parte del nostro futuro, che l'amore non ha bisogno di garanzie per saltare nel precipizio e che solo parlandosi e cercando di comprendere la lingua dell'altro da sè si può sperare di crescere e di maturare. Il linguaggio del resto è il cuore del plot, un linguaggio arcano che nell'interpretazione può essere foriero di amore o di odio, di pace o di guerra, perchè sta a noi tendere la mano o voltare le spalle a chi abbiamo di fronte, che sia un alieno o un vicino di casa. Amy Adams è materna, avvolgente e accogliente nell'andare incontro a chi arriva da lontano portando forse un dono forse un'arma, e i due alieni (Tom e Jerry in omaggio ad una delle coppie storiche dell'immaginario collettivo) sono fluidi, liquidi, ambigui se si vuole o misteriosi e affascinanti come tutto ciò che non si conosce, e solo chi ha conosciuto - o conoscerà - il dolore può far da ponte fra la ragione e il cuore, fra la critica e l'istinto, fra la bellezza del cosmo in cui fluttuiamo uniti da un tempo liquido e circolare e la cinica lettura politica e militare. Hannah è il futuro che ci aspetta, un futuro senza prospettive forse, ma che ha il diritto di nascere e di crescere senza paura di sbagliare. Voto 8
Barriere - di e con Denzel Washington e Viola Davis
Partiamo dall'opera teatrale da cui il film è tratto, Fences, capolavoro di August Wilson premio Pulitzer per la drammaturgia nel 1983 e già portato sul palcoscenico proprio da Denzel Washington e Viola Davis, un dramma che ha in sè echi dei grandi testi teatrali del passato, Tennessee Williams in testa, la storia cruda eppure tenera di Troy, un uomo senza limiti, brutale quanto logorroico (la versione originale del film regala una sorta di rap inarrestabile nei primi 10 minuti di film che permettono a Washington di divertirsi e divertire a briglia sciolta) capace di parlare alla morte guardandola dritta negli occhi ma incapace di tendere la mano al figlio adolescente che vuole giocare a football. I dialoghi serrati, mantenuti nei ranghi degli atti teatrali dal Washington regista sono uno steccato nello steccato (fences appunto) entro cui si ricorda il passato e si costruisce un futuro arrangiato su una partitura blues, tenuto insieme dalla forza di una donna semplice, dimessa, in grado però di trasformare l'odio in amore e la sofferenza in coraggio. Gli steccati servono a tener fuori i nemici (e la morte) ma servono anche a tener dentro gli affetti, a non farli scappare verso quelle vite sognate e mai realizzate. Un uomo difficile da amare, che nel suo egoismo nasconde però l'integrità del dovere e dell'orgoglio, una donna capace di camminare sul filo del rasoio, tagliarsi e continuare con la forza della volontà (e Viola Davis è magistrale nel darle corpo e voce) e un fool di grandissimo impatto emotivo, che con la sua tromba accompagna il fratello Troy verso i cancelli del paradiso. Voto 8 e 1/2
Partiamo dall'opera teatrale da cui il film è tratto, Fences, capolavoro di August Wilson premio Pulitzer per la drammaturgia nel 1983 e già portato sul palcoscenico proprio da Denzel Washington e Viola Davis, un dramma che ha in sè echi dei grandi testi teatrali del passato, Tennessee Williams in testa, la storia cruda eppure tenera di Troy, un uomo senza limiti, brutale quanto logorroico (la versione originale del film regala una sorta di rap inarrestabile nei primi 10 minuti di film che permettono a Washington di divertirsi e divertire a briglia sciolta) capace di parlare alla morte guardandola dritta negli occhi ma incapace di tendere la mano al figlio adolescente che vuole giocare a football. I dialoghi serrati, mantenuti nei ranghi degli atti teatrali dal Washington regista sono uno steccato nello steccato (fences appunto) entro cui si ricorda il passato e si costruisce un futuro arrangiato su una partitura blues, tenuto insieme dalla forza di una donna semplice, dimessa, in grado però di trasformare l'odio in amore e la sofferenza in coraggio. Gli steccati servono a tener fuori i nemici (e la morte) ma servono anche a tener dentro gli affetti, a non farli scappare verso quelle vite sognate e mai realizzate. Un uomo difficile da amare, che nel suo egoismo nasconde però l'integrità del dovere e dell'orgoglio, una donna capace di camminare sul filo del rasoio, tagliarsi e continuare con la forza della volontà (e Viola Davis è magistrale nel darle corpo e voce) e un fool di grandissimo impatto emotivo, che con la sua tromba accompagna il fratello Troy verso i cancelli del paradiso. Voto 8 e 1/2
La Battaglia di Hacksaw Ridge - di Mel Gibson con con Andrew Garfield e Vince Vaughn
Un perfetto film di guerra, perchè un film di guerra non deve solo raccontare le strategie militari, gli eroismi dei singoli e le conseguenze politiche e sociali, deve far odiare l'insensatezza dei conflitti, l'inutile mattanza di corpi, e menti, e anime che ogni guerra provoca, indipendentemente da chi risulterà vincitore, e il film di Mel Gibson quell'insensatezza e quella mattanza la mostra a tinte forti, fortissime, quasi insostenibili per chi cerchi uno sguardo cinematografico. Una prima parte agiografica e tutto sommato trascurabile anche se perfettamente godibile ci consegna un giovane dal sorriso candido e dall'anima ammaccata da una famiglia già segnata dalla guerra che pur se obiettore di coscienza e quindi senza imbracciare un'arma scende sul campo di battaglia armato di plasma, morfina e coraggio per portare in salvo i feriti. L'addestramento brutale come ci si aspetta, la ferocia dei combattimenti, i personaggi talvolta stereotipati, tutto scompare quando negli ultimi 40 minuti assistiamo ad un crescendo di scene memorabili e toccanti, con un montaggio che sfiora la perfezione e un finale di grandissimo impatto storico e documentaristico. "God, help me get one more..." ripete il giovane Desmond nel film e il vecchio Desmond nel documentario del 2003, una frase che suona forte, e ricorda che anche se "Signore, aiutami a salvarne ancora uno" è tutto ciò che abbiamo di fronte alla guerra, alle guerre, di ogni genere, razza e colore, talvolta può essere sufficiente. Voto 8 e 1/2
Un perfetto film di guerra, perchè un film di guerra non deve solo raccontare le strategie militari, gli eroismi dei singoli e le conseguenze politiche e sociali, deve far odiare l'insensatezza dei conflitti, l'inutile mattanza di corpi, e menti, e anime che ogni guerra provoca, indipendentemente da chi risulterà vincitore, e il film di Mel Gibson quell'insensatezza e quella mattanza la mostra a tinte forti, fortissime, quasi insostenibili per chi cerchi uno sguardo cinematografico. Una prima parte agiografica e tutto sommato trascurabile anche se perfettamente godibile ci consegna un giovane dal sorriso candido e dall'anima ammaccata da una famiglia già segnata dalla guerra che pur se obiettore di coscienza e quindi senza imbracciare un'arma scende sul campo di battaglia armato di plasma, morfina e coraggio per portare in salvo i feriti. L'addestramento brutale come ci si aspetta, la ferocia dei combattimenti, i personaggi talvolta stereotipati, tutto scompare quando negli ultimi 40 minuti assistiamo ad un crescendo di scene memorabili e toccanti, con un montaggio che sfiora la perfezione e un finale di grandissimo impatto storico e documentaristico. "God, help me get one more..." ripete il giovane Desmond nel film e il vecchio Desmond nel documentario del 2003, una frase che suona forte, e ricorda che anche se "Signore, aiutami a salvarne ancora uno" è tutto ciò che abbiamo di fronte alla guerra, alle guerre, di ogni genere, razza e colore, talvolta può essere sufficiente. Voto 8 e 1/2
Hell or Hight Water - di David Mackenzie con Chris Pine, Ben Foster, Jeff Bridges
Un destino segnato fin dalla prima scena, il desiderio di lasciare ai propri figli ciò che noi abbiamo solo sognato sono lo spunto per una riflessione amara e sincera sull'amore e sul sacrificio, sulla solitudine e sull'emarginazione, su ciò che significa lottare contro i mulini a vento senza alcuna prospettiva di vittoria, solo perchè il destino ci ha consegnato un copione sgualcito. I due fratelli che rapinano banche senza una strategia e senza costruirsi un piano di fuga sono in fondo il retro della medaglia di chi quelle rapine deve fermarle pur essendo ad un soffio dalla pensione, deluso e solo come qualunque essere umano al termine del proprio percorso. E quando i destini si incontrano e la morte chiama i giri il gioco si fa sommesso, il confronto non ha bisogno di un mezzogiorno di fuoco per decretare un vincitore, perchè non c'è vittoria nella perdita. Jeff Bridges arriccia il baffo e il sopracciglio, e glielo lasciamo fare, perchè quando si tratta di dar volto al dolore lo fa da par suo, e Chris Pine è una bella scoperta nel ruolo dell'uomo mite che per colpa delle banche ha perso tutto, tranne il desiderio di lasciare un futuro ai propri figli. Poteva essere più convincente il film? Sì. Poteva essere più articolata l'analisi di alcuni personaggi? Sì. Ma rimane un sommesso senso di rispetto e di ammirazione per una pellicola che scivola nel baratro senza urla e senza strepiti, e una volta nel burrone si scuote la polvere dal cappello e zoppicando continua a camminare, nel sole del tramonto. Voto 7 e 1/2
Un destino segnato fin dalla prima scena, il desiderio di lasciare ai propri figli ciò che noi abbiamo solo sognato sono lo spunto per una riflessione amara e sincera sull'amore e sul sacrificio, sulla solitudine e sull'emarginazione, su ciò che significa lottare contro i mulini a vento senza alcuna prospettiva di vittoria, solo perchè il destino ci ha consegnato un copione sgualcito. I due fratelli che rapinano banche senza una strategia e senza costruirsi un piano di fuga sono in fondo il retro della medaglia di chi quelle rapine deve fermarle pur essendo ad un soffio dalla pensione, deluso e solo come qualunque essere umano al termine del proprio percorso. E quando i destini si incontrano e la morte chiama i giri il gioco si fa sommesso, il confronto non ha bisogno di un mezzogiorno di fuoco per decretare un vincitore, perchè non c'è vittoria nella perdita. Jeff Bridges arriccia il baffo e il sopracciglio, e glielo lasciamo fare, perchè quando si tratta di dar volto al dolore lo fa da par suo, e Chris Pine è una bella scoperta nel ruolo dell'uomo mite che per colpa delle banche ha perso tutto, tranne il desiderio di lasciare un futuro ai propri figli. Poteva essere più convincente il film? Sì. Poteva essere più articolata l'analisi di alcuni personaggi? Sì. Ma rimane un sommesso senso di rispetto e di ammirazione per una pellicola che scivola nel baratro senza urla e senza strepiti, e una volta nel burrone si scuote la polvere dal cappello e zoppicando continua a camminare, nel sole del tramonto. Voto 7 e 1/2
Il Diritto di Contare - di Theodore Melfi con Taraji P. Henson, Octavia Spencer, Janelle Monae, Kevin Costner
Tre astrofisiche di colore negli anni 60 contribuiscono al successo delle prime missioni spaziali della Nasa. Tutte e tre madri, tutte e tre giovani e geniali. Una sceneggiatura interessante ma poco credibile verrebbe da dire e invece le tre signore in questione sono state davvero un perno degli anni d'oro della conquista della Luna e della aspra rivalità con la Russia che lanciò Gagarin in orbita prima che gli USA fossero pronti, scatenando malumori nelle alte sfere. Grandi menti matematiche ma anche imprenditoriali - l'idea di studiare il manuale per l'uso dei primi computer IBM in linguaggio Fortrand e di "sfidare" la legge e la società pur di essere ammesse ad una scuola di soli bianchi fa capire di che pasta siano fatte e signore - donne che ballano, bevono e si innamorano ma quando si mettono a far di conto mettono in riga tutti i nerd ante litteram della Nasa, donne che non perdono la loro femminilità - le corse con tacchi 12 per andare al bagno riservato alle persone di colore sono un tormentone che verrà abbattuto da un granitico Kevin Costner a colpi di piccone - e il loro orgoglio black, ma soprattutto che credono nelle proprie capacità e nel proprio talento al di là di ogni stereotipo. Un film piano, lineare, che scivola fra i meandri della storia senza spigoli e senza grida, ma che non fa sconti ad una società miope e in via di estinzione - l'avvento del computer è solo una metafora per le tante realtà che saranno spazzate via negli anni a venire - un film recitato bene, originale nel raccontare quelle piccole storie che hanno fatto la grande storia, e fa piacere sapere che una delle protagoniste a 97 anni è stata insignita della più alta onorificenza riservata a chi ha dedicato la propria vita alla scienza. Voto 7 e 1/2
Tre astrofisiche di colore negli anni 60 contribuiscono al successo delle prime missioni spaziali della Nasa. Tutte e tre madri, tutte e tre giovani e geniali. Una sceneggiatura interessante ma poco credibile verrebbe da dire e invece le tre signore in questione sono state davvero un perno degli anni d'oro della conquista della Luna e della aspra rivalità con la Russia che lanciò Gagarin in orbita prima che gli USA fossero pronti, scatenando malumori nelle alte sfere. Grandi menti matematiche ma anche imprenditoriali - l'idea di studiare il manuale per l'uso dei primi computer IBM in linguaggio Fortrand e di "sfidare" la legge e la società pur di essere ammesse ad una scuola di soli bianchi fa capire di che pasta siano fatte e signore - donne che ballano, bevono e si innamorano ma quando si mettono a far di conto mettono in riga tutti i nerd ante litteram della Nasa, donne che non perdono la loro femminilità - le corse con tacchi 12 per andare al bagno riservato alle persone di colore sono un tormentone che verrà abbattuto da un granitico Kevin Costner a colpi di piccone - e il loro orgoglio black, ma soprattutto che credono nelle proprie capacità e nel proprio talento al di là di ogni stereotipo. Un film piano, lineare, che scivola fra i meandri della storia senza spigoli e senza grida, ma che non fa sconti ad una società miope e in via di estinzione - l'avvento del computer è solo una metafora per le tante realtà che saranno spazzate via negli anni a venire - un film recitato bene, originale nel raccontare quelle piccole storie che hanno fatto la grande storia, e fa piacere sapere che una delle protagoniste a 97 anni è stata insignita della più alta onorificenza riservata a chi ha dedicato la propria vita alla scienza. Voto 7 e 1/2
La La Land - di Damien Chazelle con Ryan Gosling e Emma Stone
Iper realistico, ipertestuale, iper colorato e iper costruito. Il che non è un difetto, anzi, un film che ha una sua solida impalcatura può meglio sostenere il peso di quel genere un po' magico un po' maledetto che è il musical, capace di far affondare anche produzioni sulla carta perfette. La La Land a quale categoria di film appartiene? un po' al capolavoro - inizio con un piano sequenza che resterà nella storia del cinema e un paio di scene di grande impatto visivo - e un po' al "beh tutto qua?" perchè un film che vuole celebrare l'amore non può finire con un mezzo sorriso all'interno di un locale affollato, ci deve almeno una scena d'addio degna di questo nome, o un trionfo di sentimenti che si sono persi non si sa dove nè perchè. Gosling e la Stone sono belli, bravi, ballano, cantano, si amano e si perdono con grande professionalità, ma anche senza urgenza o sofferenza, perchè anche la loro separazione avviene in modo talmente soft che non ce ne accorgiamo quasi. Resta la policromia di colori, gesti e voci, resta il jazz come mood di sottofondo e la City of Stars come sogno che confina con l'incubo, ma resta un fastidio profondo quando realizziamo che una tourneé e una trasferta a Parigi saranno la tomba di un destino che sembrava inciso a colpi di tip tap. Comunque, anche se l'Amore con la A maiuscola abita altrove, resta una regia originale e disinvolta, una recitazione intonata e una bella simbiosi fra coreografia e montaggio. Voto 8
Iper realistico, ipertestuale, iper colorato e iper costruito. Il che non è un difetto, anzi, un film che ha una sua solida impalcatura può meglio sostenere il peso di quel genere un po' magico un po' maledetto che è il musical, capace di far affondare anche produzioni sulla carta perfette. La La Land a quale categoria di film appartiene? un po' al capolavoro - inizio con un piano sequenza che resterà nella storia del cinema e un paio di scene di grande impatto visivo - e un po' al "beh tutto qua?" perchè un film che vuole celebrare l'amore non può finire con un mezzo sorriso all'interno di un locale affollato, ci deve almeno una scena d'addio degna di questo nome, o un trionfo di sentimenti che si sono persi non si sa dove nè perchè. Gosling e la Stone sono belli, bravi, ballano, cantano, si amano e si perdono con grande professionalità, ma anche senza urgenza o sofferenza, perchè anche la loro separazione avviene in modo talmente soft che non ce ne accorgiamo quasi. Resta la policromia di colori, gesti e voci, resta il jazz come mood di sottofondo e la City of Stars come sogno che confina con l'incubo, ma resta un fastidio profondo quando realizziamo che una tourneé e una trasferta a Parigi saranno la tomba di un destino che sembrava inciso a colpi di tip tap. Comunque, anche se l'Amore con la A maiuscola abita altrove, resta una regia originale e disinvolta, una recitazione intonata e una bella simbiosi fra coreografia e montaggio. Voto 8
Lion - La strada verso casa - di Garth Davis con Dev Patel, Nicole Kidman e Rooney Mara
I jalebis - piccoli dolci di pastella fritta poi inzuppati nello sciroppo, dolci tipici dell'India - come le madeleine di proustiana memoria, capaci di risvegliare ricordi sommersi, rimossi perchè troppo strazianti, ma che una volta riemersi impongono di abbandonare tutto, perchè la propria identità, e il proprio futuro, non possono essere completi se le fondamenta affondano nel nulla. Una storia vera di amore, solitudine, coraggio e fatalità quella del piccolo Saroo che a cinque anni si trova perso e solo nella Calcutta tentacolare e solo grazie all'adozione di una famiglia australiana potrà ritrovare la strada a ritroso verso la sua infanzia. Un protagonista delizioso, che corre come un maratoneta in fuga ma anche come un fiero conquistatore, un giovane che vive il suo tempo ma non dimentica, un cuore grande di madre - di madri - disposte ad accogliere, ma anche ad attendere. Un film lineare, di solido impianto e grandi emozioni, che fa commuovere quando deve far commuovere - senza nessuna indulgenza o enfasi - asciutto e rigoroso, capace di raccontare l'India e le sue contraddizioni con la stessa mano ferma con cui racconta le difficoltà, tutte occidentali, di una famiglia borghese in cui al figlio perfetto si affianca il figlio problematico. Le scene finali in cui il vero Saroo fa ritorno nel suo paese si sovrappongono a quelle cinematografiche con grazia e sincerità, lasciandoci un buon sapore in bocca, anche se i numeri dei "lost children" che scorrono sui titoli di coda ci ricordano un dramma che non può essere silenziato dal lieto fine di un singolo caso. Voto 8
I jalebis - piccoli dolci di pastella fritta poi inzuppati nello sciroppo, dolci tipici dell'India - come le madeleine di proustiana memoria, capaci di risvegliare ricordi sommersi, rimossi perchè troppo strazianti, ma che una volta riemersi impongono di abbandonare tutto, perchè la propria identità, e il proprio futuro, non possono essere completi se le fondamenta affondano nel nulla. Una storia vera di amore, solitudine, coraggio e fatalità quella del piccolo Saroo che a cinque anni si trova perso e solo nella Calcutta tentacolare e solo grazie all'adozione di una famiglia australiana potrà ritrovare la strada a ritroso verso la sua infanzia. Un protagonista delizioso, che corre come un maratoneta in fuga ma anche come un fiero conquistatore, un giovane che vive il suo tempo ma non dimentica, un cuore grande di madre - di madri - disposte ad accogliere, ma anche ad attendere. Un film lineare, di solido impianto e grandi emozioni, che fa commuovere quando deve far commuovere - senza nessuna indulgenza o enfasi - asciutto e rigoroso, capace di raccontare l'India e le sue contraddizioni con la stessa mano ferma con cui racconta le difficoltà, tutte occidentali, di una famiglia borghese in cui al figlio perfetto si affianca il figlio problematico. Le scene finali in cui il vero Saroo fa ritorno nel suo paese si sovrappongono a quelle cinematografiche con grazia e sincerità, lasciandoci un buon sapore in bocca, anche se i numeri dei "lost children" che scorrono sui titoli di coda ci ricordano un dramma che non può essere silenziato dal lieto fine di un singolo caso. Voto 8
Manchester by the sea - di Kenneth Lonergan con Casey Affleck e Michelle Williams
Un dolore sordo, inarrestabile come il mare che fa da sfondo a questo dramma intimo e corale, un dolore che tutto travolge e tutto contamina, anche l'amore che pure avrebbe la forza di sopravvivere ma non ha il coraggio di essere espresso. Una famiglia lacerata da una tragedia di quelle che bruciano i sogni di una vita, un matrimonio, un futuro. Un uomo alla deriva che si trova a dover confortare un nipote adolescente - che non sa come riconoscere il dolore così come l'amore - con le sue braccia svuotate, con il suo cuore lacerato, con il silenzio che lo ho portato lontano dai luoghi dove ha perso tutto. Due scene con la ex moglie talmente intense e dolenti da togliere il fiato, e Lonergan fa benissimo a farci entrare in punta di piedi nell'abisso di sofferenza che non lascia spiragli, se non nel finale, dove due solitudini, due generazioni, due perdite si incontrano in un compromesso di affetto e rispetto. Un film che ti avvolge nella nebbia, nella neve, nel buio e ti illumina con la sua eleganza, sobrietà, umanità. Un film che non fa sconti e non chiede il permesso di scavare nello scrigno del dolore che ognuno di noi custodisce in profondità, un film che non si dimentica, un film con due scene che sono un grido d' amore anche se i protagonisti non si cambiano neanche una carezza. Voto 9
Un dolore sordo, inarrestabile come il mare che fa da sfondo a questo dramma intimo e corale, un dolore che tutto travolge e tutto contamina, anche l'amore che pure avrebbe la forza di sopravvivere ma non ha il coraggio di essere espresso. Una famiglia lacerata da una tragedia di quelle che bruciano i sogni di una vita, un matrimonio, un futuro. Un uomo alla deriva che si trova a dover confortare un nipote adolescente - che non sa come riconoscere il dolore così come l'amore - con le sue braccia svuotate, con il suo cuore lacerato, con il silenzio che lo ho portato lontano dai luoghi dove ha perso tutto. Due scene con la ex moglie talmente intense e dolenti da togliere il fiato, e Lonergan fa benissimo a farci entrare in punta di piedi nell'abisso di sofferenza che non lascia spiragli, se non nel finale, dove due solitudini, due generazioni, due perdite si incontrano in un compromesso di affetto e rispetto. Un film che ti avvolge nella nebbia, nella neve, nel buio e ti illumina con la sua eleganza, sobrietà, umanità. Un film che non fa sconti e non chiede il permesso di scavare nello scrigno del dolore che ognuno di noi custodisce in profondità, un film che non si dimentica, un film con due scene che sono un grido d' amore anche se i protagonisti non si cambiano neanche una carezza. Voto 9
Moonlight - di Barry Jenkins con Mahershala Ali e Naomie Harris - Oscar Miglior Film 2017
E' una solitudine compatta quella che scorre lenta nei giorni e negli anni che serviranno a Little per diventare prima Chiron ed infine Black, una solitudine che va oltre la razza, l'orientamento sessuale e l'estrazione sociale, una solitudine che chiede pietà, chiede tenerezza, chiede ascolto al silenzio ostinato che quel bambino spaventato oppone ad ogni volto e ad ogni voce. Lo schema del film di Jankins segue un labirinto di sentimenti destinati ad implodere in una gabbia di muscoli e denti d'acciaio, e lo fa con una serie di quadri teatrali (del resto l'opera è tratta da un plot pluripremiato), con inquadrature strettissime sul volto, sulle mani, sul corpo dei protagonista, quasi a metterlo con le spalle al muro, quasi a costringerlo ad un confronto con la propria identità, celata, misconosciuta, temuta e desiderata. E' un film che racconta il bullismo che vive sulla propria pelle ogni anima fragile? sì. E' un film che mette in scena la difficoltà di scoprirsi gay in un ambiente dove conta solo essere machi e violenti? anche. Ma è soprattutto la fatica di crescere e vivere con se stessi e con gli altri che rende così dolente la parabola di un giovane afroamericano indifeso di fronte al mondo, a cui però basta ascoltare una voce dal passato per aggrapparvisi come l'ultimo pezzo di legno dopo un naufragio. L'incontro con la madre che mai ha saputo essere la mamma di cui Chiron avrebbe avuto bisogno è tutto nella simmetria di quelle lacrime che scorrono discrete, e la scena alla tavola calda con l'amico di sempre, ammaccato dalla vita ma ancora capace di accogliere e ascoltare, è un respiro trattenuto che regala un protagonista sommesso ed intenso a chi non abbia paura di soffrire con lui. Voto 8 e 1/2
E' una solitudine compatta quella che scorre lenta nei giorni e negli anni che serviranno a Little per diventare prima Chiron ed infine Black, una solitudine che va oltre la razza, l'orientamento sessuale e l'estrazione sociale, una solitudine che chiede pietà, chiede tenerezza, chiede ascolto al silenzio ostinato che quel bambino spaventato oppone ad ogni volto e ad ogni voce. Lo schema del film di Jankins segue un labirinto di sentimenti destinati ad implodere in una gabbia di muscoli e denti d'acciaio, e lo fa con una serie di quadri teatrali (del resto l'opera è tratta da un plot pluripremiato), con inquadrature strettissime sul volto, sulle mani, sul corpo dei protagonista, quasi a metterlo con le spalle al muro, quasi a costringerlo ad un confronto con la propria identità, celata, misconosciuta, temuta e desiderata. E' un film che racconta il bullismo che vive sulla propria pelle ogni anima fragile? sì. E' un film che mette in scena la difficoltà di scoprirsi gay in un ambiente dove conta solo essere machi e violenti? anche. Ma è soprattutto la fatica di crescere e vivere con se stessi e con gli altri che rende così dolente la parabola di un giovane afroamericano indifeso di fronte al mondo, a cui però basta ascoltare una voce dal passato per aggrapparvisi come l'ultimo pezzo di legno dopo un naufragio. L'incontro con la madre che mai ha saputo essere la mamma di cui Chiron avrebbe avuto bisogno è tutto nella simmetria di quelle lacrime che scorrono discrete, e la scena alla tavola calda con l'amico di sempre, ammaccato dalla vita ma ancora capace di accogliere e ascoltare, è un respiro trattenuto che regala un protagonista sommesso ed intenso a chi non abbia paura di soffrire con lui. Voto 8 e 1/2