Oscar 2018 - Le emozioni che ci hanno lasciato i film candidati nelle varie categorie
Sogni di gloria, sogni infranti, sogni inconfessati, sogni raggiunti e perduti, sogni che accompagnano una stagione, un giorno, un battito di ciglia dei protagonisti degli Oscar 2018, storie minime che sarebbero piaciute a Raymond Carver, storie di chi prova a vincere anche se sa già che la vittoria sarà comunque amara, e costringerà a lasciarsi dietro una piccola silenziosa scia di dolore. E che alla fine della fiera, spente le luci e chiusi gli occhi, quell'adolescente che sognava di lasciare la provincia, quel cuore puro che ha amato come non amerà mai più, quella madre straziata o quella giovane battagliera seppure vessata e abusata, non ci saranno più. Mai più. C'è un sentimento di perdita che accompagna molte delle pellicole in gara quest'anno, perdita personale o collettiva, perdita di innocenza o perdita di identità, ma non è forse una continua altalena fra perdere e trovare la vita, un palcoscenico dove alternativamente si appicca il fuoco dell'odio e si sciolgono le lacrime dall'amore?

Il Filo Nascosto - di Paul Thomas Anderson con Daniel Day-Lewis, Lesley Manville e Vicky Krieps
L'eleganza non è negli abiti ma in chi li indossa, in chi li guarda, e soprattutto in chi li crea, in chi guarda una donna e prima ancora di vedere il suo corpo vede le sue forme, le sue proporzioni, la possibilità di aggiungere grazia e successo alle sue creazioni. Così è Reynolds Woodcock, stilista creato da Paul Thomas Anderson pensando a Balenciaga, interpretato con algida assenza da un superbo Daniel Da-Lewis (ripensaci per amor del buon cinema, non lasciare il mestiere d'attore sul più bello, quando le ingrigite tempie ti liberano dalla schiavitù del sex symbol) che avanza impavido fra una musa devota quanto orgogliosa e una sorella possessiva e ossessiva (l'altra fonte di ispirazione del film è "Rebecca la prima moglie" di Hitchcock). Corpi, tessuti, sentimenti, sono invenzioni che nascono dal desiderio, dall'urgenza, dalla consapevolezza che solo osando oltrepassare i limiti si può scoprire se stessi. Un legame in cui si alternano i ruoli, in cui carnefice e vittima sono intrecciati come la trama di un damasco, un bisogno che si fa alternativamente gioia e dannazione. Regalmente si scivola fra amore e raso, fra sevizie e strascichi, e si può solo lasciarsi avvolgere dalla impalpabile magia di un regista che può farci felici con una pioggia di rane e con un orlo imbastito. Voto 9
L'eleganza non è negli abiti ma in chi li indossa, in chi li guarda, e soprattutto in chi li crea, in chi guarda una donna e prima ancora di vedere il suo corpo vede le sue forme, le sue proporzioni, la possibilità di aggiungere grazia e successo alle sue creazioni. Così è Reynolds Woodcock, stilista creato da Paul Thomas Anderson pensando a Balenciaga, interpretato con algida assenza da un superbo Daniel Da-Lewis (ripensaci per amor del buon cinema, non lasciare il mestiere d'attore sul più bello, quando le ingrigite tempie ti liberano dalla schiavitù del sex symbol) che avanza impavido fra una musa devota quanto orgogliosa e una sorella possessiva e ossessiva (l'altra fonte di ispirazione del film è "Rebecca la prima moglie" di Hitchcock). Corpi, tessuti, sentimenti, sono invenzioni che nascono dal desiderio, dall'urgenza, dalla consapevolezza che solo osando oltrepassare i limiti si può scoprire se stessi. Un legame in cui si alternano i ruoli, in cui carnefice e vittima sono intrecciati come la trama di un damasco, un bisogno che si fa alternativamente gioia e dannazione. Regalmente si scivola fra amore e raso, fra sevizie e strascichi, e si può solo lasciarsi avvolgere dalla impalpabile magia di un regista che può farci felici con una pioggia di rane e con un orlo imbastito. Voto 9

The Post - di Steven Spielberg, con Tom Hanks, Meryl Streep, Sarah Paulson, Bob Odenkirk e Alison Brie
Tecnicamente perfetto - Spielberg è una garanzia per regia, montaggio, luci, sound e tutto il companatico - recitato come ci si aspetta da Tom Hanks e Meryl Streep, quindi benissimo, ma siamo proprio sicuri che sia un grande film sul giornalismo d'inchiesta? Tutti gli uomini del presidente, o Sindrome cinese, o Diritto di Cronaca, il Caso Spotlight, fino ad arrivare, andando a ritroso nel tempo a L'ultima minaccia in cui Bogart pronuncia la mitica frase "E' la stampa bellezza"... Il giornalismo d'inchiesta piace a Hollywood e i risultati sono spesso di altissimo livello, come anche nel caso del The Post, ma il cinema con la c maiuscola deve anche costruire personaggi leggendari attorno alla ricostruzione fedele dei fatti, dargli volti e toni degni di essere ricordati al di là del messaggio, della denuncia, della veridicità, quel "e' la stampa bellezza" della situazione insomma, che qui manca anche se il racconto di come un piccolo giornale di provincia abbia con coraggio sfidato i grandi poteri abbia una sua perfetta eco contemporanea (tanto da indurre Spielberg a lasciare a metà le riprese di The Kidnapping of Edgardo Mortara per mandare The Post al più presto nelle sale e nelle coscienze del pubblico americano e non solo). Se esistesse un Oscar per la Docufiction The Post lo avrebbe già vinto, se però vogliamo gridare al capolavoro cinematografico solo per il coraggio di aver affrontato un tema tanto scottante allora forse dobbiamo andare a rivedere la definizione di film. Voto 8
Tecnicamente perfetto - Spielberg è una garanzia per regia, montaggio, luci, sound e tutto il companatico - recitato come ci si aspetta da Tom Hanks e Meryl Streep, quindi benissimo, ma siamo proprio sicuri che sia un grande film sul giornalismo d'inchiesta? Tutti gli uomini del presidente, o Sindrome cinese, o Diritto di Cronaca, il Caso Spotlight, fino ad arrivare, andando a ritroso nel tempo a L'ultima minaccia in cui Bogart pronuncia la mitica frase "E' la stampa bellezza"... Il giornalismo d'inchiesta piace a Hollywood e i risultati sono spesso di altissimo livello, come anche nel caso del The Post, ma il cinema con la c maiuscola deve anche costruire personaggi leggendari attorno alla ricostruzione fedele dei fatti, dargli volti e toni degni di essere ricordati al di là del messaggio, della denuncia, della veridicità, quel "e' la stampa bellezza" della situazione insomma, che qui manca anche se il racconto di come un piccolo giornale di provincia abbia con coraggio sfidato i grandi poteri abbia una sua perfetta eco contemporanea (tanto da indurre Spielberg a lasciare a metà le riprese di The Kidnapping of Edgardo Mortara per mandare The Post al più presto nelle sale e nelle coscienze del pubblico americano e non solo). Se esistesse un Oscar per la Docufiction The Post lo avrebbe già vinto, se però vogliamo gridare al capolavoro cinematografico solo per il coraggio di aver affrontato un tema tanto scottante allora forse dobbiamo andare a rivedere la definizione di film. Voto 8

La Forma dell'Acqua - di Guillermo Del Toro con Sally Hawkins, Michael Shannon, Richard Jenkins, Octavia Spencer
La diversità - ogni forma di diversità, mutevole e fluida proprio come l'acqua - diventa poesia, e ironia, e favola, e favola nera, un mix di classicismo e avanguardia, corpi silenziosi che danzano nel vuoto di esistenze prigioniere ma anche corpi coraggiosi, vitali, corpi che si avvicinano e si riconoscono, che trasformano la solitudine in una danza di felicità, senza mai scivolare nell'ovvio, senza mai concedere a chi guarda di allontanarsi dalla bolla liquida in cui è ambientato questo passo a due, o meglio a quattro, se non a sei , che regala ad ogni interprete la propria luce, una luce che brilla di più quando scolora in quella dell'altro da sè. Una ragazza muta, un "mostro" marino dai poteri magici, un vecchio solitario che rincorre il crine perduto, un villain spietato anche con se stesso, e poi comprimari complici dello script, capaci di assecondare il ritmo senza mai dimenticare che l'obiettivo non è tanto - o non è solo - la libertà e la fuga verso un mondo meno gotico e speculativo - ma trovare se stessi anche nei luoghi e nei moti più impensati, come un canale che sfocia in un qualche mare, laggiù, e poco conta se il pegno sarà annegare, l'amore avrà comunque vinto. Un componimento per volti e colori il capolavoro di Guillermo del Toro, dove il surreale si sposa con lo splatter, e con il romanticismo più puro, e che ci avviluppa nelle spire, nelle branchie e nelle squame del mostro - capace di amare con tenerezza la sua musa ma anche di mangiare un gatto con divertentissima nonchalance (a dimostrazione che c'è magia anche nell'ironia) - e ci chiede di credere ancora una volta alla felicità, ovunque si trovi. Voto 9 e 1/2
La diversità - ogni forma di diversità, mutevole e fluida proprio come l'acqua - diventa poesia, e ironia, e favola, e favola nera, un mix di classicismo e avanguardia, corpi silenziosi che danzano nel vuoto di esistenze prigioniere ma anche corpi coraggiosi, vitali, corpi che si avvicinano e si riconoscono, che trasformano la solitudine in una danza di felicità, senza mai scivolare nell'ovvio, senza mai concedere a chi guarda di allontanarsi dalla bolla liquida in cui è ambientato questo passo a due, o meglio a quattro, se non a sei , che regala ad ogni interprete la propria luce, una luce che brilla di più quando scolora in quella dell'altro da sè. Una ragazza muta, un "mostro" marino dai poteri magici, un vecchio solitario che rincorre il crine perduto, un villain spietato anche con se stesso, e poi comprimari complici dello script, capaci di assecondare il ritmo senza mai dimenticare che l'obiettivo non è tanto - o non è solo - la libertà e la fuga verso un mondo meno gotico e speculativo - ma trovare se stessi anche nei luoghi e nei moti più impensati, come un canale che sfocia in un qualche mare, laggiù, e poco conta se il pegno sarà annegare, l'amore avrà comunque vinto. Un componimento per volti e colori il capolavoro di Guillermo del Toro, dove il surreale si sposa con lo splatter, e con il romanticismo più puro, e che ci avviluppa nelle spire, nelle branchie e nelle squame del mostro - capace di amare con tenerezza la sua musa ma anche di mangiare un gatto con divertentissima nonchalance (a dimostrazione che c'è magia anche nell'ironia) - e ci chiede di credere ancora una volta alla felicità, ovunque si trovi. Voto 9 e 1/2

Tre manifesti ad Ebbing, Missouri - di Martin McDonagh, con Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell e Peter Dinklage
Citare i Coen è d'obbligo? no, perchè Mc Donagh è vero che ha mano ferma e sicura nel cucire il dramma più insuperabile di tutti, e cioè la perdita di un figlio, con un umorismo sottile e pericoloso affidato al fool shakesperiano con accento del profondo Sud di Sam Rockwell, ma fa anche molto altro, precipitandoci in un tempo sospeso fra una morte troppo in fretta dimenticata e una morte annunciata, dove l'amore si nasconde dietro la rabbia e dove solo chi sa guardare oltre la statura delle persone - fisica e metaforica - può scorgere l'ombra delle emozioni. Perchè le parole sono quasi tutte fuori luogo, sbagliate, di quelle che feriscono e fanno danni, ma i gesti, gli sguardi, le azioni, nonostante le peggiori intenzioni, finiscono con l'essere di conciliazione e di speranza. I manifesti di Ebbing sono un memento brutale e feroce, un atto d'accusa verso una società che mastica e digerisce ogni violenza e ogni decadenza dell'anima e della ragione, ma sono anche una bandiera di libertà, di rinascita, di coraggio e di sfida, sono altare e sbarre, sono condanna e perdono. E in questo caleidoscopio di emozioni frante e consumate dal destino si scorge la perfetta follia dell'esistenza - e la perfetta genialità di Mc Donagh - capaci di far germogliare scene commoventi e poetiche dagli sterili semi dell'odio, del razzismo e della vendetta. Voto 9 e 1/2
Citare i Coen è d'obbligo? no, perchè Mc Donagh è vero che ha mano ferma e sicura nel cucire il dramma più insuperabile di tutti, e cioè la perdita di un figlio, con un umorismo sottile e pericoloso affidato al fool shakesperiano con accento del profondo Sud di Sam Rockwell, ma fa anche molto altro, precipitandoci in un tempo sospeso fra una morte troppo in fretta dimenticata e una morte annunciata, dove l'amore si nasconde dietro la rabbia e dove solo chi sa guardare oltre la statura delle persone - fisica e metaforica - può scorgere l'ombra delle emozioni. Perchè le parole sono quasi tutte fuori luogo, sbagliate, di quelle che feriscono e fanno danni, ma i gesti, gli sguardi, le azioni, nonostante le peggiori intenzioni, finiscono con l'essere di conciliazione e di speranza. I manifesti di Ebbing sono un memento brutale e feroce, un atto d'accusa verso una società che mastica e digerisce ogni violenza e ogni decadenza dell'anima e della ragione, ma sono anche una bandiera di libertà, di rinascita, di coraggio e di sfida, sono altare e sbarre, sono condanna e perdono. E in questo caleidoscopio di emozioni frante e consumate dal destino si scorge la perfetta follia dell'esistenza - e la perfetta genialità di Mc Donagh - capaci di far germogliare scene commoventi e poetiche dagli sterili semi dell'odio, del razzismo e della vendetta. Voto 9 e 1/2

Chiamami col tuo nome - di Luca Guadagnino con Armie Hammer e Timothée Chalamet, Michael Stuhlbarg
Nel film di Luca Guadagnino c'è il sapore di Bertolucci, c'è il retrogusto di Malik, ma c'è soprattutto un'emozione pura e incontaminata che solo a 16 anni si può provare... "Later" (per chi l'ha visto o lo vedrà in originale, quasi un obbligo per gustare le tante lingue compreso un inaspettato bergamasco!) sarà per sempre uno struggente saluto di urgenza e passione... il primo amore è qualcosa di assoluto, di unico, di irripetibile, e l'amore che nasce fra Oliver ed Elio in una assolata estete italiana ha in sè tutta l'estasi e tutta la disperazione degli amori che sono destinati a non durare, senza un perchè. La tensione erotica, la scoperta di sè e dell'altro, la gioventù e la spensieratezza che finiscono in una stazione di provincia, sono tutti passaggi paradigmatici, ma mai scontati, il finale è di quelli che fa male e che resta a lungo nella memoria di chiunque abbia attraversato le paludi dell'adolescenza, e il dialogo fra Elio e suo padre un tributo delicato e poetico al testo di André Aciman da cui il film è tratto. Chiamami col tuo nome, gioco seducente e intimo, diventa grido disperato nel colloquio che chiude il film e ci avvolge nelle spire della grazia, della crudeltà e della meraviglia del grande cinema. Il più bel film della stagione (e oltre). Voto 10
Nel film di Luca Guadagnino c'è il sapore di Bertolucci, c'è il retrogusto di Malik, ma c'è soprattutto un'emozione pura e incontaminata che solo a 16 anni si può provare... "Later" (per chi l'ha visto o lo vedrà in originale, quasi un obbligo per gustare le tante lingue compreso un inaspettato bergamasco!) sarà per sempre uno struggente saluto di urgenza e passione... il primo amore è qualcosa di assoluto, di unico, di irripetibile, e l'amore che nasce fra Oliver ed Elio in una assolata estete italiana ha in sè tutta l'estasi e tutta la disperazione degli amori che sono destinati a non durare, senza un perchè. La tensione erotica, la scoperta di sè e dell'altro, la gioventù e la spensieratezza che finiscono in una stazione di provincia, sono tutti passaggi paradigmatici, ma mai scontati, il finale è di quelli che fa male e che resta a lungo nella memoria di chiunque abbia attraversato le paludi dell'adolescenza, e il dialogo fra Elio e suo padre un tributo delicato e poetico al testo di André Aciman da cui il film è tratto. Chiamami col tuo nome, gioco seducente e intimo, diventa grido disperato nel colloquio che chiude il film e ci avvolge nelle spire della grazia, della crudeltà e della meraviglia del grande cinema. Il più bel film della stagione (e oltre). Voto 10

Dunkirk - di Christopher Nolan, con Tom Hardy, Cillian Murphy, Mark Rylance e Kenneth Branagh
Film di guerra dovremmo definire Dunkirk, episodio poco noto della 2° guerra mondiale che vide impegnate imbarcazioni civili nel recupero di soldati britannici dalla costa francese, ma film di guerra non è, perchè nonostante gli echi delle bombe e i corpi straziati, e il nemico da sconfiggere, la guerra, con i suoi infiniti e inutili ritorni, resta sullo sfondo di una battaglia silenziosa e concentrata, il ritorno a casa. Nonostante la grandiosità delle scene - niente comparse al computer, telecamere spallari... - è un piccolo intimo film quello di Nolan, un close up sul destino di quei giovani spaventati, confinati su una spiaggia straniera, sospesi fra la vita e la morte, in attesa della salvezza o della fine. Ci sono molti suoni, rumori, ma poche parole, prosciugate da un orrore incomprensibile, da una speranza che non osa farsi verbo. Nolan sa capovolgere il concetto di eroismo e di vigliaccheria così come capovolge la telecamera per passare dal'acqua all'aria, perchè in ogni soldato c'è l'uomo in ogni sua forma, dalla più meschina alla più nobile, ed è proprio negli occhi di questi ragazzi sperduti che si aggrappano anche ad una menzogna pur di salvarsi che si riconosce la bellezza della vita. Ed è stilisticamente coraggiosa anche la scena dell'arrivo delle piccole imbarcazioni civili, così classica, con tanto di accompagnamento musicale in stile "arrivano i nostri" , una scena che in un film tanto discreto nel suo nucleo centrale e altrettanto roboante nella sua cornice ambientale risulta una perfetta enclave di sincera emozione. Voto 9
Film di guerra dovremmo definire Dunkirk, episodio poco noto della 2° guerra mondiale che vide impegnate imbarcazioni civili nel recupero di soldati britannici dalla costa francese, ma film di guerra non è, perchè nonostante gli echi delle bombe e i corpi straziati, e il nemico da sconfiggere, la guerra, con i suoi infiniti e inutili ritorni, resta sullo sfondo di una battaglia silenziosa e concentrata, il ritorno a casa. Nonostante la grandiosità delle scene - niente comparse al computer, telecamere spallari... - è un piccolo intimo film quello di Nolan, un close up sul destino di quei giovani spaventati, confinati su una spiaggia straniera, sospesi fra la vita e la morte, in attesa della salvezza o della fine. Ci sono molti suoni, rumori, ma poche parole, prosciugate da un orrore incomprensibile, da una speranza che non osa farsi verbo. Nolan sa capovolgere il concetto di eroismo e di vigliaccheria così come capovolge la telecamera per passare dal'acqua all'aria, perchè in ogni soldato c'è l'uomo in ogni sua forma, dalla più meschina alla più nobile, ed è proprio negli occhi di questi ragazzi sperduti che si aggrappano anche ad una menzogna pur di salvarsi che si riconosce la bellezza della vita. Ed è stilisticamente coraggiosa anche la scena dell'arrivo delle piccole imbarcazioni civili, così classica, con tanto di accompagnamento musicale in stile "arrivano i nostri" , una scena che in un film tanto discreto nel suo nucleo centrale e altrettanto roboante nella sua cornice ambientale risulta una perfetta enclave di sincera emozione. Voto 9

Lady Bird - di Greta Gerwig con Saoirse Ronan, Laurie Metcalf, Thimotée Chalamet
"Dimenticate il mio nome di battesimo, io sono Lady Bird", è tutta in questa affermazione la voglia di rivincita e di ribellione di Christine, adolescente nata e crescita a Sacramento ma che sogna l'East Cost. Madre infermiera con cui ha un rapporto di odio amore - raramente reso così dolce e così struggente come nei graffi e nelle carezze che si scambiano per tutto il film Saoirse Ronan e Laurie Mercalf - padre con una depressione di lunga data, migliore amica obesa e primo fidanzatino omosessuale, un quadro che spaventerebbe chiunque, ma non Lady Bird che gridando, sgomitando e sognando va avanti per la sua strada, sbagliando, soffrendo e facendo soffrire, cambiando, crescendo. Con tutte le lacerazioni e le perdite che comporta la crescita, con tutte le scoperte e le delusioni, ma anche con tutto l'entusiasmo e la fiducia che ha solo chi ha la consapevolezza di avere davanti a sè tutta la vita e tutti gli errori del creato. Cinema indie sicuramente, ma perchè dover etichettare una pellicola che colora di malinconia e dolcezza i dialoghi, che nasconde l'affetto in una risma di fogli gialli appallottolati e buttati via (ma segretamente recuperati) e lascia che sia il volto devastato di Laurie Metcalf a raccontare in silenzio tutti i sacrifici di una madre. E' solo grande cinema, in cui c'è posto anche per un brano tratto da Furore di Steinback, mondo antico ma mai dimenticato, e forse non così lontano. Voto 9
"Dimenticate il mio nome di battesimo, io sono Lady Bird", è tutta in questa affermazione la voglia di rivincita e di ribellione di Christine, adolescente nata e crescita a Sacramento ma che sogna l'East Cost. Madre infermiera con cui ha un rapporto di odio amore - raramente reso così dolce e così struggente come nei graffi e nelle carezze che si scambiano per tutto il film Saoirse Ronan e Laurie Mercalf - padre con una depressione di lunga data, migliore amica obesa e primo fidanzatino omosessuale, un quadro che spaventerebbe chiunque, ma non Lady Bird che gridando, sgomitando e sognando va avanti per la sua strada, sbagliando, soffrendo e facendo soffrire, cambiando, crescendo. Con tutte le lacerazioni e le perdite che comporta la crescita, con tutte le scoperte e le delusioni, ma anche con tutto l'entusiasmo e la fiducia che ha solo chi ha la consapevolezza di avere davanti a sè tutta la vita e tutti gli errori del creato. Cinema indie sicuramente, ma perchè dover etichettare una pellicola che colora di malinconia e dolcezza i dialoghi, che nasconde l'affetto in una risma di fogli gialli appallottolati e buttati via (ma segretamente recuperati) e lascia che sia il volto devastato di Laurie Metcalf a raccontare in silenzio tutti i sacrifici di una madre. E' solo grande cinema, in cui c'è posto anche per un brano tratto da Furore di Steinback, mondo antico ma mai dimenticato, e forse non così lontano. Voto 9

Wonder - di Stephen Chbosky con Julia Roberts, Owen Wilson e Jacob Tremblay
Auggie è nato con una malformazione facciale e anche se ha già subito decine di interventi il suo volto non è e non sarà mai come quello degli altri bambini. Per questo l'ingresso nel mondo scolastico è a dir poco traumatico, nonostante gli sforzi di mamma e papà di ammortizzare le cattiverie dei compagni di scuola. Che pian piano capiranno di aver esagerato e si trasformeranno in best friends del piccolo saggio Auggie. Sì perchè nonostante abbia anche lui i suoi momenti no Auggie è saggio, ironico, capace di tener testa fisicamente e dialetticamente a tutti i bulli della scuola. Praticamente perfetto. Forse un po' troppo. Perchè la favola gentile che ci vuole insegnare come sia importante essere bendisposti verso chiunque sia diverso da noi esagera nei toni buonisti e usa luci troppo nette per caratterizzare i buoni e i cattivi, salvo poi scolorare tutti in un abbraccio rosato. Alcune scene sono sicuramente accattivanti e ben orchestrate, ma lo stereotipo e il clichè sono costantemente in agguato. La Roberts sorride, ma non è certo una scoperta epocale al pari della "Garbo talks", Owen Wilson fa il biondo simpatico, e anche questo lo sapevamo già, Jacob Tremblay dopo Room si conferma bravo, bravissimo, il messaggio è giusto, condiviso e sottolineato, ma insomma, si poteva articolare meglio i personaggi, soprattutto le caratterizzazioni negative dei bulli, e si poteva fare di Auggie un bambino meno educato, corretto e colto.
Voto 7 e1/2
Auggie è nato con una malformazione facciale e anche se ha già subito decine di interventi il suo volto non è e non sarà mai come quello degli altri bambini. Per questo l'ingresso nel mondo scolastico è a dir poco traumatico, nonostante gli sforzi di mamma e papà di ammortizzare le cattiverie dei compagni di scuola. Che pian piano capiranno di aver esagerato e si trasformeranno in best friends del piccolo saggio Auggie. Sì perchè nonostante abbia anche lui i suoi momenti no Auggie è saggio, ironico, capace di tener testa fisicamente e dialetticamente a tutti i bulli della scuola. Praticamente perfetto. Forse un po' troppo. Perchè la favola gentile che ci vuole insegnare come sia importante essere bendisposti verso chiunque sia diverso da noi esagera nei toni buonisti e usa luci troppo nette per caratterizzare i buoni e i cattivi, salvo poi scolorare tutti in un abbraccio rosato. Alcune scene sono sicuramente accattivanti e ben orchestrate, ma lo stereotipo e il clichè sono costantemente in agguato. La Roberts sorride, ma non è certo una scoperta epocale al pari della "Garbo talks", Owen Wilson fa il biondo simpatico, e anche questo lo sapevamo già, Jacob Tremblay dopo Room si conferma bravo, bravissimo, il messaggio è giusto, condiviso e sottolineato, ma insomma, si poteva articolare meglio i personaggi, soprattutto le caratterizzazioni negative dei bulli, e si poteva fare di Auggie un bambino meno educato, corretto e colto.
Voto 7 e1/2

Coco - di Lee Unkrich e Adrian Molina - Animazione
La Pixar vola alto, altissimo, fino nel regno dei morti, per celebrare la Festa che ogni anno ricongiunge per qualche ora chi non c'è più con i suoi cari. L'ambientazione messicana era d'obbligo per una tradizione molto sentita, ed era d'obbligo creare un personaggio coraggioso disposto a tutto pur di inseguire i suoi sogni, anche di andare contro il volere della sua famiglia. Coco è un film di animazione di rara bellezza e poesia, un film che ameranno sicuramente di più gli adulti per i quali il mondo dell'aldilà è già affollato di ricordi e di affetti. Le avventure del piccolo vivente nel regno dei morti - diverso e dunque mal visto - sono esilaranti ma la struggente dolcezza di alcuni personaggi, come il vero bisnonno di Coco, tengono la storia in perfetto equilibrio fra un fantastico viaggio onirico e una dolente e profonda riflessione sul valore del ricordo. La bisnonna ammalata di Alzheimer è la testimonianza che i film di animazione sono in grado di raccontare la realtà più cruda con candore e pudore, e la figura forte e volitiva della bisnonna un grande esempio di emancipazione femminile che spazza via decenni di principesse. Maturo, emozionante, tecnicamente ineccepibile e lirico quanto basta, ha un solo piccolo deficit da un punto di vista musicale, perchè le canzoni non sono memorabili. Ma tutto il resto sì. Voto 9
La Pixar vola alto, altissimo, fino nel regno dei morti, per celebrare la Festa che ogni anno ricongiunge per qualche ora chi non c'è più con i suoi cari. L'ambientazione messicana era d'obbligo per una tradizione molto sentita, ed era d'obbligo creare un personaggio coraggioso disposto a tutto pur di inseguire i suoi sogni, anche di andare contro il volere della sua famiglia. Coco è un film di animazione di rara bellezza e poesia, un film che ameranno sicuramente di più gli adulti per i quali il mondo dell'aldilà è già affollato di ricordi e di affetti. Le avventure del piccolo vivente nel regno dei morti - diverso e dunque mal visto - sono esilaranti ma la struggente dolcezza di alcuni personaggi, come il vero bisnonno di Coco, tengono la storia in perfetto equilibrio fra un fantastico viaggio onirico e una dolente e profonda riflessione sul valore del ricordo. La bisnonna ammalata di Alzheimer è la testimonianza che i film di animazione sono in grado di raccontare la realtà più cruda con candore e pudore, e la figura forte e volitiva della bisnonna un grande esempio di emancipazione femminile che spazza via decenni di principesse. Maturo, emozionante, tecnicamente ineccepibile e lirico quanto basta, ha un solo piccolo deficit da un punto di vista musicale, perchè le canzoni non sono memorabili. Ma tutto il resto sì. Voto 9

The Greatest Showman - di Michael Gracey con Hugh Jackman, Michelle Williams, Zac Efron, Zendaya e Rebecca Ferguson
Un Ottocento raffinato e classico, con una partitura musicale targata 2018, è questo l'abbinamento ardito e riuscitissimo di "The Greatest Showman", musical cucito sulle doti canore e tersicoree di Hugh Jackman e Zac Efron che ballano, cantano, falliscono e rinascono a ritmo di musica. Liberamente ispirato alla vita di P. T. Barnum, inventore del circo a tre piste racconta una biografia paradigmatica del successo americano, del sogno diventato realtà e trasformato in incubo, del passaggio dall'essere un entusiasta visionario ad un arrogante protagonista, del miracolo di ritrovare intatto il proprio candore e il proprio coraggio grazie all'amore e all'amicizia. Niente di nuovo sotto il tendone del circo, ma talmente ben orchestrato diretto recitato e coreografato che la storia passa in secondo piano, i numeri corali interpretati dai freaks di Barnum sono magnifici per intensità e quelle aberrazioni della natura che reclamano a gran voce - e che voce - il loro posto nel mondo sono una dichiarazione politica e sociale al pari di un corteo di attivisti. Colonna sonora 2018 dicevamo, piena di ritmo e di emozione, che permette a tutti protagonisti di brillare di luce propria. Voto 8 e 1/2
Un Ottocento raffinato e classico, con una partitura musicale targata 2018, è questo l'abbinamento ardito e riuscitissimo di "The Greatest Showman", musical cucito sulle doti canore e tersicoree di Hugh Jackman e Zac Efron che ballano, cantano, falliscono e rinascono a ritmo di musica. Liberamente ispirato alla vita di P. T. Barnum, inventore del circo a tre piste racconta una biografia paradigmatica del successo americano, del sogno diventato realtà e trasformato in incubo, del passaggio dall'essere un entusiasta visionario ad un arrogante protagonista, del miracolo di ritrovare intatto il proprio candore e il proprio coraggio grazie all'amore e all'amicizia. Niente di nuovo sotto il tendone del circo, ma talmente ben orchestrato diretto recitato e coreografato che la storia passa in secondo piano, i numeri corali interpretati dai freaks di Barnum sono magnifici per intensità e quelle aberrazioni della natura che reclamano a gran voce - e che voce - il loro posto nel mondo sono una dichiarazione politica e sociale al pari di un corteo di attivisti. Colonna sonora 2018 dicevamo, piena di ritmo e di emozione, che permette a tutti protagonisti di brillare di luce propria. Voto 8 e 1/2

I, Tonya - di Craig Gillespie con Margot Robbie, Sebastian Stan, Allison Janney, Bobby Cannavale
Anni 80, lustrini e spalline imbottite, musica disco e capelli cotonati. Ma non nel mondo del pattinaggio artistico su ghiaccio, dove è richiesta eleganza e grazia, buone maniere e corpo esile. Tutto ciò che non è Tonya Harding, atleta della squadra olimpionica di pattinaggio su ghiaccio, passata alla storia per aver ordinato un assalto alla sua rivale Nancy Kerrigan. Il film ricostruisce in chiave comica, ma anche drammatica, ma anche grottesca, ma anche sentimentale, la vita della adolescente Tonya vessata prima da una madre padrona - magnifica Allison Janney - poi da un marito manesco, troppo alta, troppo sgraziata, troppo volgare per diventare una campionessa, eppure prima donna ad aver eseguito un triplo Haxel in una competizione (e nessuna controfigura anche oggi è stata in grado di replicarla tant'è che il salto è stato ricostruito con una serie di effetti in fase di montaggio). Personaggi che sembrano usciti da un film dei Coen per quanto maldestri e sconclusionati, ma che sono perfettamente funzionali - e disfunzionali - ad un film che si basa sulle testimonianze - assolutamente vere, totalmente contraddittorie e prive di qualunque ironia come recita il cartello in apertura di film - dei protagonisti di questa vicenda dura e cruda, che racconta in fondo solo la voglia di essere felice di una ragazzina che dalla vita ha avuto nulla o quasi. Il filo della trama si dipana senza suspense, sappiamo tutti come andò a finire, ma i rivoli di sangue e sudore che Tonya lascia dietro di sè hanno una malia ipnotica che ci cattura e ci fa godere ogni inquadratura, comprese le frasi rivolte alla camera che ricordano gli indimenticabili monologhi dello scellerato Kevin Spacey in House of Cards. Voto 8 e 1/2
Anni 80, lustrini e spalline imbottite, musica disco e capelli cotonati. Ma non nel mondo del pattinaggio artistico su ghiaccio, dove è richiesta eleganza e grazia, buone maniere e corpo esile. Tutto ciò che non è Tonya Harding, atleta della squadra olimpionica di pattinaggio su ghiaccio, passata alla storia per aver ordinato un assalto alla sua rivale Nancy Kerrigan. Il film ricostruisce in chiave comica, ma anche drammatica, ma anche grottesca, ma anche sentimentale, la vita della adolescente Tonya vessata prima da una madre padrona - magnifica Allison Janney - poi da un marito manesco, troppo alta, troppo sgraziata, troppo volgare per diventare una campionessa, eppure prima donna ad aver eseguito un triplo Haxel in una competizione (e nessuna controfigura anche oggi è stata in grado di replicarla tant'è che il salto è stato ricostruito con una serie di effetti in fase di montaggio). Personaggi che sembrano usciti da un film dei Coen per quanto maldestri e sconclusionati, ma che sono perfettamente funzionali - e disfunzionali - ad un film che si basa sulle testimonianze - assolutamente vere, totalmente contraddittorie e prive di qualunque ironia come recita il cartello in apertura di film - dei protagonisti di questa vicenda dura e cruda, che racconta in fondo solo la voglia di essere felice di una ragazzina che dalla vita ha avuto nulla o quasi. Il filo della trama si dipana senza suspense, sappiamo tutti come andò a finire, ma i rivoli di sangue e sudore che Tonya lascia dietro di sè hanno una malia ipnotica che ci cattura e ci fa godere ogni inquadratura, comprese le frasi rivolte alla camera che ricordano gli indimenticabili monologhi dello scellerato Kevin Spacey in House of Cards. Voto 8 e 1/2