Biosimilari in Gastroreumatologia, opportunità e limiti Prof. Laganà | La disbiosi intestinale nelle spondiloartriti Prof. Luchetti |
E’ noto infatti che alterazioni quantitative del numero di batteri e qualitative in termini di ceppi, ovvero la DISBIOSI, abbiano un ruolo preponderante anche nelle malattie infiammatorie in genere e in quelle reumatiche in particolare.
“La disbiosi ha numerosi effetti casuali come l’alterazione dell’integrità della mucosa di rivestimento intestinale, perchè danneggiata o a causa di una ridotta espressione di particolari proteine” spiega il Professor Michele Maria Luchetti, Professore Aggregato di medicina Interna presso l’Università Politecnica delle Marche durante il suo intervento al 6 Congresso nazionale della Società Italiana di Gastroreumatologia tenutosi a Roma nel weekend “L’alterazione della mucosa a sua volta la rende permeabile consentendo la diffusione dei batteri nella circolazione sanguigna. Ciò determina a cascata l’attivazione del sistema immunitario e la produzione di autoanticorpi che determinano una attivazione dell’infiammazione sistemica e locale a livello articolare con aumento dei livelli delle citochine chiave nella patogenesi delle spondiloartriti, come TNF-alfa e le interleuchine IL 17 e IL23".
Si tratta di una vera e propria ‘catena patogenetica’ che può essere controllata a monte con una attenzione particolare proprio a questo raffinato sistema intestinale (con beneficio per molte altre condizioni e comorbidità).
L’integrità e se vogliamo l’equilibrio dei cappi di batteri del microbiota dovrebbe essere uno dei nuovi punti chiave della terapia delle spondiloartriti.
Negli ultimi due anni numerosi lavori hanno dimostrato come la dieta - che oltretutto è un fattore di rischio modificabile - abbia un ruolo fondante nell’integrità, l’equilibrio e la salute del microbiota.
Ecco allora che accanto alle prescrizioni farmacologiche diventi opportuno dare indicazioni sul regime alimentare che non si limitino a consigli generici ma facciano parte della terapia: la dieta per il soggetto affetto da una condizione infiammatoria dovrebbe prevedere pochi grassi saturi, poca carne rossa con una limitazione di quella processata come i salumi e gli insaccati.
La carne rossa, e lavorata, è una ricca fonte di proteine, grassi e zolfo alimentare che può favorire l'infiammazione. Ad esempio, la fermentazione batterica del colon può portare alla formazione di acidi grassi a catena ramificata pro-infiammatori, ammoniaca (NH3) e idrogeno solforato (H2S). L'acido solfidrico può ridurre i legami disolfuro nella rete del muco, rendendo lo strato di muco e renderlo permeabile inoltre i microbi possono raggiungere l'epitelio e attivare meccanismi infiammatori [1].
Un elevato apporto di carne rossa e proteine totali è stato associato in una coorte di ben 25.630 soggetti come la European Prospective Investigation of Cancer in Norfolk (EPIC-Norfolk) ad un aumentato rischio di sviluppare poliartrite infiammatoria.
Limitare i grassi saturi, il grano raffinato, la farina bianca, gli zuccheri e i dolcificanti industriali. Via libera invece ai proteine vegetali, cibi fermentati e fibre, queste ultime alla base del nutrimento del microbiota in salute e ad una supplementazione con probiotici su indicazione dello specialista.
“In particolare le fibre alimentari di cereali, frutta e verdura sono metabolizzate dal microbioma intestinale in acidi grassi a catena corta, tra cui butirrato, propionato e acetato, che rappresentano un importante combustibile per la mucosa intestinale e sono associati a marcati effetti anti-infiammatori” prosegue il professor Luchetti “L'assunzione di fibre può influenzare una risposta anti-TNF mentre un basso apporto può potenzialmente modificare il metabolismo microbico dell'intestino dall'uso di acidi grassi a catena corta in carboidrati mucinosi come principale fonte di energia che portano alla degradazione dello strato di muco con produzione di acido solfidrico che rende la barriera penetrabile da batteri e altri composti ".
“Una strategia capace di mantenere il microbiota in equilibrio, garantire l’integrità della mucosa intestinale e prevenire lo sviluppo dell’infiammazione a livello delle articolazioni. Benefici a cui si aggiunge l’aumento dell’efficacia di alcune terapie con farmaci biologici” aggiunge il Professor Bruno Laganà, Presidente della SIGR – Società Italiana GastroReumatologia.
Tra i diversi argomenti affrontati quest’anno nell’ambito del VI Convegno Nazionale della Società Italiana di GastroReumatologia (SIGR) tenutosi dal 4 al 5 ottobre, la sessione riguardante l’esperienza dei farmaci biosimilari in Gastroenterologia e in Reumatologia assume particolare rilevanza per la attualità e la delicatezza del tema trattato. Secondo i dati del Rapporto OSMED 2018, la spesa farmaceutica territoriale complessiva in Italia è stata pari a 20.8 mld di euro (-1% rispetto al 2017); la spesa pubblica territoriale (12,4 mld di euro) ha rappresentato il 60% della spesa e ha fatto segnare un – 4%, rispetto all’anno. In questo quadro di contenimento della spesa, continua a crescere il mercato dei biosimilari. Infatti, si legge nel Rapporto, più della metà della spesa (65,9%) e i quattro quinti dei consumi di farmaci erogati dall’assistenza convenzionata (82,7%) sono stati rappresentati lo scorso anno da prodotti con brevetto già scaduto, i cosiddetti off patent, con un sensibile aumento del risparmio per il SSN.
“Si tratta di farmaci che per motivi tecnici, ad esempio l’utilizzo di linee cellulari, non sono identici al farmaco originatore, a differenza dei farmaci sintetici o equivalenti. Nondimeno, questi vengono valutati utilizzando analisi approfondite e rigorose del potenziale biosimilare rispetto all'originatore biologico per confermare la struttura, funzione ed efficacia clinica simili, nonché la sicurezza – puntualizza il presidente SIGR, prof. Bruno Laganà – La loro commercializzazione è di notevole interesse per il costo inferiore, il potenziale risparmio delle risorse sanitarie del SSN e il conseguente maggiore e più rapido accesso alle terapie per i pazienti. Dal punto di vista clinico, è importante capire quando e come in un paziente con malattie croniche infiammatorie reumatiche o gastroenterologiche, si possa sospendere il farmaco biologico, sia esso originatore o biosimilare, mantenendo solo la terapia convenzionale, molto più sostenibile dal punto di vista economico. Negli anni passati il concetto di riduzione o sospensione del farmaco biologico non era contemplato e veniva anche considerato pericoloso per una sicura ripresa dell’attività di malattia. Oggi, questo concetto è stato negli anni riveduto e corretto”.
Muove da qui l’appello a favore di un’informazione adeguata sull’intercambiabilità tra farmaci biosimilari e originatori che la SIGR porta oggi ai gastroenterologi e reumatologi, riuniti al VI Congresso nazionale di Gastroreumatologia in corso a Roma, in linea con quanto riportato in merito da AIFA – Agenzia Italiana del Farmaco1.
“Senza entrare nel merito del potenziale immunogenico, è condivisibile che l’utilizzo del biosimilare, a parità di efficacia e sicurezza, sia etico per la responsabilità che ogni medico prescrittore ha nel garantire il più appropriato utilizzo delle risorse economiche del territorio. Ma questa considerazione, ovvia per la scelta del farmaco in chi inizia un trattamento del genere, diventa meno ovvia quando al paziente già in trattamento con il farmaco originatore venga sostituito il farmaco in corso con un suo biosimilare. E che questo, in un prossimo futuro, possa essere cambiato più volte non per motivi medici ma economici – prosegue il presidente Laganà - E’ necessario informare il paziente sul perché dell’intercambiabilità e sulla definizione del concetto di biosimilarità, ed è necessario che le informazioni siano adeguate e che ci sia tracciabilità della suddetta informazione. E’ infine auspicabile che il risparmio delle risorse economiche derivato dall’utilizzo dei biosimilari venga effettivamente reinvestito per aumentare il numero di pazienti da poter trattare”.
Come riferisce a sua volta il professor Vincenzo Bruzzese, past president della SIGR, “un paziente che presenta segni clinici e radiografici di remissione completa della malattia, soprattutto se questa remissione è stabile da alcuni anni, può essere considerato per una iniziale riduzione della dose del farmaco biologico e per una eventuale successiva sospensione. Occorre in questa fase monitorare costantemente il paziente, per individuare possibili segni di ripresa di malattia, che in una percentuale variabile di pazienti purtroppo avviene. E’ dunque importante, affinchè la spesa sanitaria sia sostenibile e si possa consentire la cura di più pazienti, che anche il medico faccia la sua parte, prescrivendo i farmaci biosimilari quando è possibile, e sospendendo il farmaco nei pazienti in remissione protratta”.
Fonte: Ufficio Stampa Mason &Partners