
FARMACI - il commento del Prof. Alessandro Padovani, Direttore Clinica Neurologica Università di Brescia
Qualcosa si sta muovendo nella cura della Malattia di Alzheimer, anche se la strada non ha ancora imboccato la discesa. Nelle ultime settimane, il mondo scientifico ha preso atto che la direzione intrapresa con le terapie biologiche dirette nei confronti di alcune forme di amiloide è quella giusta, ma esistono ancora diverse questioni da mettere in chiaro. Infatti, gli ultimi risultati su due nuove molecole quali Donanemab e Lecanemab indicano che entrambe non solo riducono in tempi ridotti l’accumulo dell’amiloide nel cervello del 60% e l’accumulo di altre proteine correlate alla neurodegenerazione come la Tau, ma che grazie a questo inducono un chiaro rallentamento della progressione clinica. Un rallentamento medio del 30% rispetto a chi non assume la terapia e a chi non mostra un effetto biologico. In attesa di ulteriori conferme, è giusto sottolineare che questi farmaci appaiono efficaci anche in soggetti anziani già affetti da un decadimento cognitivo. Rispetto ad altri farmaci, lecanemab e donanemab mostrano un profilo di tollerabilità più soddisfacente per quanto riguarda gli eventi avversi, in particolare lo sviluppo di edema cerebrale e di microemorragie, sebbene occorre ricordare che queste sono in parte più frequenti in color che assumono antiaggreganti e anticoagulanti. A conferma di questo, dobbiamo registrare i dati di un altro trattamento, Gantenerumab, l’unico che prevede la somministrazione sottocute. Infatti, a San Francisco sono stati presentati in anteprima i risultati di due studi clinici che hanno mostrato un effetto clinico meno significativo di quanto atteso in larga parte correlato ad un effetto biologico sull’amiloide limitato. Non sono chiari le ragioni di questo esito ma certo questo si aggiunge ai precedenti tentativi non arrivati a buon fine. Tra questi dobbiamo includere i dati relativi ad un antiaggregante della proteina TAU, la idrossimetitionina o blu di metilene, che non hanno mostrato un beneficio significativo. Invece, sono stati oggetto di grande interesse i risultati preliminari di due studi lo SMARRT e il FINGER, che hanno in comune l’adozione di un approccio non farmacologico e mirato alla prevenzione in soggetti adulti e anziani. Infatti, entrambi gli studi hanno riportato un effetto clinico significativo sulla incidenza di demenza nella popolazione sottoposta ad un trattamento mirato all’attività fisica, dieta equilibrata, controllo dei fattori di rischio cardiovascolare. A conferma dell’importanza dei fattori di rischio, interessanti i dati a favore di farmaci ipoglicemizzanti in grado di contrastare l’insulina resistenza. Questi, così come una dieta chetogenica, potrebbero rappresentare una nuova frontiera per la prevenzione della Malattia di Alzheimer. Da qui, si fa sempre più forte la convinzione che è necessaria una diagnosi precoce e in questo contesto una nuova frontiera si è concretizzata. Ovvero la possibilità di individuare la malattia attraverso marcatori plasmatici. Numerose le evidenze a favore di questa possibilità tanto da ritenere che nei prossimi anni potremo davvero studiare l’effetto di terapie preventive in soggetti a rischio identificati attraverso un esame ematico.
DIAGNOSI PRECOCE E PREVENZIONE: il commento del Prof. Camillo Marra, Presidente SINdem – Associazione autonoma aderente alla SIN per le demenze
L’Italia è una delle società più anziane del mondo e si stima che oltre 1 milione di soggetti è affetto da demenza, di cui circa il 60% è affetto da Malattia di Alzheimer, e oltre 800 mila persone sono affette da disturbi cognitivi minimi che possono essere prodromici al successivo sviluppo di una demenza.
Promettenti terapie, che vanno a modificare il decorso della malattia di Alzheimer, sono all’orizzonte ma queste non saranno per tutti e saranno attuabili solo nelle fasi di esordio della malattia. La possibilità quindi di accedere a queste terapie sarà possibile solo se si potrà effettuare diffusamente una diagnosi precoce.
La diagnosi precoce è quindi la condizione necessaria per l’accesso a queste nuove terapie ma cionondimeno rappresenta una necessità per tutti i malati in quanto gli interventi, terapeutici e preventivi, attualmente disponibili sono efficaci soprattutto nelle fasi iniziali di malattia.
Diagnosi precoce e interventi di prevenzione primaria e secondaria rappresentano ad oggi gli elementi cruciali di un intervento efficace in corso di malattia di Alzheimer e lo saranno anche in futuro.
La diagnosi tempestiva di demenza di Alzheimer deve essere effettuata quando i sintomi sono ancora in fase prodromica e quando il disturbo non interferisce sulle capacità e sulla autonomia funzionale. La diagnosi in questa fase di malattia, in cui il disturbo neurocognitivo è minimo (MCI l’acronimo inglese per identificarla), necessita di competenze specialistiche molteplici che includono l’investigazione neuropsicologica, lo studio morfologico cerebrale attraverso la RMN cerebrale, lo studio della funzionalità sinaptica e metabolica cerebrale con la PET cerebrale e lo studio di biomarcatori che sono in grado di identificare le proteine associate alla Malattia di Alzheimer dall’analisi del liquor cefalorachidiano.
La possibilità di far accedere oltre un milione di soggetti a questa diagnostica è poco verosimile e anche poco utile per quei soggetti in cui la definizione diagnostica potrebbe avere minori ricadute sulle scelte terapeutiche.
Inoltre, un algoritmo diagnostico economicamente sostenibile dovrebbe prevedere che il percorso diagnostico parta da esami a basso costo, alta disponibilità, e alta sensibilità per poi arrivare in un più limitato numero di soggetti a quegli esami ad alto costo, alta specificità e più alta specializzazione propedeutici all’uso di farmaci specifici. Il progetto INTERCEPTOR promosso da AIFA e Ministero della salute si concluderà alla fine del 2023 e cercherà di dare una risposta a questa domanda
Il percorso che ne deriverà richiederà PDTA (percorsi diagnostici terapeutici assistenziali) ben definiti e linee guida per la diagnosi e il trattamento. Il Tavolo Nazionale Demenze istituito dal Ministero della Salute sta lavorando a questi obiettivi insieme a operatori istituzionali e a esperti delle società scientifiche tra cui SIN e SINDEM.
Il percorso diagnostico ipotizzato nel Piano Nazionale Demenze prevede la creazione di una rete di operatori e di servizi che possano prendere in carico il paziente dalla fase iniziale di screening, fase in cui sono maggiormente coinvolti medicina generale e territoriale, alle fasI diagnostiche di I° livello, svolte nei CDCD (Centri per Disturbi Cognitivi e Demenze), alle fasi di diagnostica specialistica di alto livello in cui entrino in gioco le strutture ospedaliere più specializzate.
La possibilità di accedere alla diagnosi precoce è anche fondamentale per attivare gli interventi di prevenzione secondaria principalmente indirizzati al controllo dei fattori di rischio cardiovascolare e alla modifica degli stili di vita che possono ridurre l’incidenza della demenza nella popolazione anziana di oltre il 20%.
Gli interventi preventivi che si sono dimostrati maggiormente efficaci nel rallentare l’esordio della demenza e rallentare la progressione dei sintomi nei pazienti affetti sono l’incremento della attività fisica, il controllo dietetico con particolare attenzione all’eccessivo uso di carboidrati e cibi grassi, e l’incremento della stimolazione sociale e cognitiva tra i pazienti più anziani.
Studi epidemiologici e interventistici svolti nel nord Europa hanno dimostrato l’efficacia clinica di questi interventi. I risultati dello studio finlandese FINGER, pubblicati a più riprese su autorevoli riviste scientifiche, hanno chiaramente dimostrato che tecniche di stimolazione cognitiva e dieta bilanciata ipolipidica associate a un costante esercizio fisico sono in grado di ridurre sia lo sviluppo di demenza nei soggetti a rischio sia rallentare la progressione della demenza nel tempo.
Diagnosi precoce e prevenzione sono quindi priorità che dovranno essere diffusamente implementate nei nostri servizi non solo per garantire a pazienti e famiglie i migliori interventi e cure possibili ma anche per ridurre il carico socioeconomico ed assistenziale che la demenza avrà sempre di più sui bilanci della spesa sanitaria.