Al “The Liver Meeting”, l’annuale congresso dell’American Association for the Study of Liver Disease (AASLD), un numero considerevole di studi clinici presentati conferma l’efficacia e il profilo di sicurezza della coppia grazoprevir/elbasvir. L’associazione fissa di queste due nuove molecole di agenti antivirali diretti, (DAA - Direct Antiviral Agents) di MSD, azienda leader per la Ricerca & Sviluppo in virologia, in monosomministrazione giornaliera, libera da interferone e nella maggior parte dei casi anche da ribavirina, con cicli terapeutici di breve durata, maneggevoli e scarsamente tossici, in diversi studi di fase 2 e 3 ha mostrato dei buoni profili di efficacia e sicurezza in popolazioni di pazienti trasversali, con genotipi diversi e con diverse necessità terapeutiche, inclusi i pazienti con cirrosi, con co-infezione HIV-HCV, con insufficienza renale terminale o che hanno fallito precedenti regimi terapeutici, anche con inibitori delle proteasi di prima generazione. Elevata la risposta virologica sostenuta (SVR) raggiunta, che supera il 90%, dopo 12 settimane di trattamento, nella maggior parte dei pazienti, tanto da permettere ai due farmaci di ottenere dalla FDA la designazione di terapia innovativa e, di recente, il via libera di EMA con procedura accelerata alla domanda di autorizzazione all’immissione in commercio.
«L’efficacia e la sicurezza di grazoprevir/elbasvir sono state investigate in tutte le categorie di pazienti, anche in quelli “difficili” da trattare – afferma Savino Bruno, Professore Straordinario di Medicina Interna alla Humanitas University Medicine di Rozzano (Milano) – i risultati si riferiscono sia a pazienti che non avevano ricevuto trattamento (naive) sia a pazienti non responsivi a precedenti trattamenti con peginterferone e ribavirina, sia a quelli che avevano fallito il trattamento con gli inibitori delle proteasi di prima generazione; a queste due ultime categorie apparteneva quasi la metà dei pazienti inclusi nello studio C-EDGE. I risultati sono stati molto buoni, con alti tassi di risposta virologica compresi tra il 92% e il 97%, elevato profilo di sicurezza e maneggevolezza».
La ricerca ha ancora molto da fare riguardo a bisogni insoddisfatti quali regimi terapeutici lunghi, asimmetrici, efficaci solo su alcuni genotipi con assunzione di troppe pillole e una gestione troppo complessa dei pazienti difficili. E proprio alle special populations gravate da co-infezione HIV-HCV che non rispondono ai trattamenti convenzionali e da insufficienza renale avanzata, l’associazione grazoprevir/elbasvir offre importanti opportunità terapeutiche.
«Nei pazienti con infezione da HIV il trattamento della patologia epatica HCV correlata rappresenta un bisogno talvolta non procrastinabile. Grazoprevir/elbasvir ha mostrato un eccellente profilo di efficacia e di sicurezza nei pazienti coinfetti, garantendo una quota di successo terapeutico superiore al 95%, indipendente dalle caratteristiche demografiche, virologiche, dal trattamento anti-HIV o dalla presenza di cirrosi – spiega Gloria Taliani, Professore Ordinario di Malattie Infettive alla Sapienza Università di Roma – il trattamento anti-HCV è di grande importanza strategica anche nei pazienti con malattia renale cronica: uno studio di modeling matematico, basato su dati di storia naturale senza trattamento e su dati di efficacia di grazoprevir/elbasvir in pazienti con malattia renale cronica e infezione da HCV genotipo 1, ha evidenziato una riduzione del rischio di incidenza di scompenso epatico nel corso della vita dal 22% al 3.8%, una riduzione del rischio di carcinoma del fegato dal 26% all’1%, un incremento dell’attesa di vita da 18 a 26 anni ed una riduzione della mortalità attesa per malattie di fegato dal 35.7% allo 0.3%».
Uno dei problemi più frequenti delle nuove terapie per l’HCV nel trattamento dei pazienti con coinfezione HCV-HIV è quello legato alla co-somministrazione di farmaci anti-HIV e anti-HCV, che espone a interazioni farmacologiche e a maggiore tossicità.
«Evitare la ribavirina, e la sua tossicità, senza perdere efficacia, è quello che i clinici auspicano, senza peraltro che questo sia oggi sempre possibile – sottolinea Carlo Federico Perno, Professore di Virologia all’Università Tor Vergata di Roma – gli studi clinici dimostrano che l’aggiunta di ribavirina non sembra aumentare ulteriormente l’efficacia, già piuttosto elevata, di grazoprevir ed elbasvir, soprattutto se il trattamento è mantenuto per un tempo congruo. Oggi i dati relativi all’efficacia di grazoprevir/elbasvir suggeriscono che potremo trattare la maggioranza dei pazienti senza l’uso di ribavirina e senza i suoi sgradevoli effetti collaterali. Con grazoprevir ed elbasvir si aprono nuovi possibili scenari di efficacia senza la tossicità della ribavirina e dell’interferone, anche per i pazienti più difficili della nostra pratica clinica».
La ricerca non si ferma e le prospettive per molte categorie di pazienti con epatite C sono ancora più interessanti: la combinazione grazoprevir/elbasvir potrà evolvere nella “tripletta”, un regime a tre farmaci, costituito da molecole di nuova generazione, ancora in fase sperimentale, come MK-8408, un nuovo inibitore di NS5A, farmaco che sta mostrando, nei primi studi, potenza ed efficacia superiori ad elbasvir, e MK-3682, potente inibitore di nuova generazione della polimerasi NS5b di HCV.
«Lo studio C-CREST, condotto su 240 pazienti con vari genotipi di HCV, ha esplorato l’efficacia e la sicurezza della combinazione grazoprevir/elbasvir con un terzo farmaco, MK-3682. La “tripletta”, affrontando il virus in tre differenti siti di replicazione, ha raggiunto un’efficacia terapeutica piuttosto alta con la capacità di coprire tutti i genotipi di HCV – sottolinea Antonio Craxì, Professore Ordinario di Gastroenterologia all’Università degli Studi di Palermo – in particolare, nel genotipo 3 si è ottenuto il 90-91% di eradicazione di HCV, una percentuale decisamente più elevata di quanto ottenibile da qualunque combinazione di DAA attualmente disponibile per l’uso clinico. Da segnalare altri due punti a favore della tripletta di DAA in questione: la combinazione funziona a livelli ottimali di risposta con cicli di 8 settimane di cura, dunque con una durata del 30% inferiore ai regimi di DAA attualmente impiegati; non viene più impiegata, nella tripletta come anche nella duplice combinazione grazoprevir/elbasvir, la ribavirina».
Grazoprevir ed elbasvir non sono dunque il punto d’arrivo: il futuro sembra evolvere verso molecole combinate in fixed dose a tre farmaci. Un regime semplificato con una pillola assunta una sola volta al giorno, senza ribavirina, ridotta tossicità, azione pangenotipica e minore durata di trattamento.
Per arrivare, nel giro di pochi anni, come auspicano i clinici e i ricercatori, all'eradicazione totale del virus HCV.
Cosa è l’epatite C?
L’epatite C è un’infiammazione del fegato causata da un virus appartenente alla famiglia delle Flaviviridae ed unico membro del genere Hepacivirus (HCV). Questo virus, attraverso l’attivazione del sistema immunitario, provoca la morte delle cellule epatiche (necrosi epatica). Le cellule epatiche distrutte dal virus sono sostituite da un tessuto cicatriziale, con la comparsa di noduli e di cicatrici che determinano la perdita progressiva della funzionalità del fegato. Come la B, infatti, anche l’epatite C può trasformarsi in una patologia cronica1. A seguito del contagio, circa il 60-70% degli individui diventa portatore cronico del virus2. Ciò significa che anche un’incidenza relativamente modesta dell’infezione contribuisce ad alimentare efficientemente il pool dei portatori cronici del virus.
Altri cofattori, come sovraccarico di ferro, steatosi epatica (accumulo all’interno delle cellule epatiche di trigliceridi), obesità e diabete possono contribuire a una progressione più rapida della fibrosi. Una volta che tale tessuto sostituisce gran parte della componente sana del fegato, l’epatite evolve in cirrosi epatica, con grave compromissione delle sue attività.
Quali sono le caratteristiche del virus dell’epatite C?
L’hepacivirus, responsabile dell’epatite C, è stato identificato nel 1989, attraverso tecniche di biologia molecolare che hanno isolato un singolo clone di DNA complementare, ma la sua esistenza era già stata scoperta negli Anni ’70, poiché determinava una forma di epatite chiamata, infatti, non-A, non-B. Successivamente sono state identificate sette varianti virali dell’HCV, con diverso genotipo, numerati da 1 a 7, e oltre 90 sub‐tipi, nominati con lettere.
Il genotipo 1, responsabile di circa il 60% delle infezioni globali e diffuso prevalentemente nel Nord America (1a) e in Europa (1b)2, ha dimostrato di essere il più difficile da trattare con successo.
Le sette varianti sono diversamente distribuite nel mondo e rispondono in modo differente alle terapie antivirali: la definizione del genotipo è, infatti, fondamentale per determinare correttamente il tipo e la durata del regime terapeutico.
Il virus può persistere anche in sistemi extracellulari extraepatici, grazie alla sua abilità di mutare l’assetto antigenico e sfuggire all'attacco del sistema immunitario dell'ospite infettato.
L'Italia è il Paese europeo con il maggior numero di persone positive al virus dell'epatite C.
Circa il 3% della popolazione italiana è entrata in contatto con l'HCV e il 55% dei soggetti con HCV è infettata dal genotipo 13.
Nel nostro Paese i portatori cronici del virus stimati sono circa 1,6 milioni, ma sono solo 300/400mila i casi diagnosticati, dei quali 50.000 con cirrosi epatica; oltre 20.000 persone muoiono ogni anno per malattie croniche del fegato (due persone ogni ora) e, nel 65% dei casi, l’epatite C risulta causa unica o concausa dei danni epatici. A livello regionale il Sud è il più colpito: in Campania, Puglia e Calabria, per esempio, nella popolazione ultra settantenne la prevalenza dell'HCV supera il 20%4.
Nel mondo si stima che siano circa 180 milioni le persone che soffrono di epatite C cronica5, di cui intorno ai 4 milioni in Europa2 e altrettanti negli Stati Uniti: più del 3% della popolazione globale. I decessi causati nel mondo da complicanze epatiche correlate all’HCV sono più di 350.000 ogni anno1.
Sebbene l’infezione da HCV sia endemica, la sua distribuzione geografica varia considerevolmente: l’Africa e l’Asia sono le aree di maggiore prevalenza, mentre in America, Europa occidentale e settentrionale e Australia la malattia è meno presente.
Negli ultimi 20 anni l’incidenza è notevolmente diminuita nei Paesi occidentali, per una maggior sicurezza nelle trasfusioni di sangue e per il miglioramento delle condizioni sanitarie; tuttavia, in Europa l'uso di droghe per via endovenosa è diventato il principale fattore di rischio per la trasmissione di HCV.
La condivisione di aghi o siringhe è a tutt’oggi il maggior fattore di rischio di contrarre la malattia1. Ma non è il solo. Altri fattori includono il tatuaggio e il body piercing eseguiti in ambienti non igienicamente protetti o con strumenti non sterilizzati, la trasmissione dell’infezione per via perinatale al proprio figlio, la trasfusione di sangue non sottoposto a screening, tagli/punture con aghi/strumenti infetti in contesti ospedalieri, ma anche la condivisione dei dispositivi per l’assunzione di droghe inalabili e di spazzolini dentali o spazzole da bagno contaminati, se utilizzati in presenza di minime lesioni della cute o delle mucose.
Come si manifesta la patologia?
La fase acuta dell’infezione del virus dell’epatite C decorre quasi sempre in modo asintomatico6, tanto che la patologia è definita un “silent killer”. Appena contratta l'infezione, il paziente può manifestare febbre, senso di stanchezza, inappetenza, dolore di stomaco, urine scure, ittero, nausea e vomito, dolori ai muscoli e alle giunture, mancanza di concentrazione, ansia e depressione1. Generalmente questi sintomi sono transitori e per molti anni la malattia non dà segni di se.
La cronicizzazione dell’Epatite, che accade in più del 70% dei pazienti, si può manifestare alterazione del normale valore delle transaminasi e con l’insorgenza della fibrosi.
Quali sono le complicanze che produce?
L’epatite C è la causa principale delle cirrosi, dei tumori al fegato, dei trapianti di fegato e dei decessi in pazienti con coinfezione HIV/HCV. Infatti, soprattutto nelle persone tossicodipendenti, l’infezione dell’HCV è spesso associata a quella dell’HIV: il 20% delle persone positive all’HCV è coinfetta con l’HIV. Entrambi i virus usano RNA per veicolare il loro codice genetico, anche se appartengono a due famiglie differenti e hanno strategie di replicazione e sopravvivenza diverse.
La cronicizzazione dell’epatite C può comportare:
- la formazione di varici nell'esofago e nello stomaco, che, rompendosi, causano emorragie;
- l'ingrossamento della milza, con conseguente anemia, calo dei globuli bianchi e delle piastrine;
- l'ittero, (accumulo nel sottocute del pigmento biliare);
- l’ascite, (accumulo di liquido nell'addome);
- la riduzione della funzionalità urinaria, con concomitante aumento della creatinina e dell'azotemia.
- l’encefalopatia epatica, (accumulo nel cervello attraverso la via ematica di sostanze tossiche che il fegato non riesce più a smaltire), che determina un cattivo funzionamento cerebrale fino ad uno stato confusionale e al coma.
Come si esegue una corretta diagnosi di HCV?
Non sempre le analisi del sangue di routine sono in grado d’identificare l’infezione da HCV: se si ritiene di essere esposti al rischio del virus è bene consultare il proprio medico curante.
Sono quattro i test diagnostici utilizzati:
1) test dell’Alanina amino transferasi (ALT) e dell’Aspartato transaminasi (AST): l’aumento di questi due specifici enzimi, conosciuti anche come GPT (Transaminasi Glutammico-Piruvica) e il GOT (Transaminasi Glutammico-Ossalacetica) segnala la presenza del virus nel sangue;
2) test Elisa (Enzyme Linked Immunosorbent Assay) e Risa (Recombinant Immunoblot Assay): misurano i livelli degli anticorpi specifici prodotti dall’organismo in risposta all’attacco del virus;
3) test PCR (Polymerase Chain Reaction): individua il materiale genetico del virus in campioni biologici, una volta determinata la presenza di anticorpi nel sangue;
4) test RFLP (Restriction Fragment Lenght Polymorphism): determina i genotipi del virus, analizzando direttamente la sequenza genomica o tramite una tecnica detta dell’ibridazione inversa.
Una volta diagnosticata, può essere eseguita una biopsia epatica, per determinare il grado d’infiammazione del fegato, l’eventuale presenza di fibrosi e lo stadio della malattia.
Per la stadiazione della fibrosi, inoltre, viene utilizzata l’elastografia epatica (sistema di misurazione non invasivo della “rigidità” del tessuto epatico) tramite fibroscan.
Come viene trattata l’epatite C?
Gli obiettivi terapeutici primari sono: inattivare il virus, bloccare la progressione della malattia, e prevenire il tumore al fegato.
La tipologia e durata di trattamento dipendono da diversi fattori come: genotipo virale, stadio di fibrosi, indice di massa corporea (BMI), ecc.
Per decenni il trattamento si è basato sulla cosiddetta “duplice terapia”, una combinazione tra Interferone (standard o pegilato) associato all’analogo nucleosidico Ribavirina.
Successivamente, con lo sviluppo degli antivirali ad azione diretta di prima generazione (DAAs) è stata resa disponibile per i pazienti con epatite C genotipo 1 una “triplice terapia”, ovvero la combinazione, di quello che veniva considerato lo SoC (Interferone pegilato + Ribavirina) più un inibitore della proteasi (IP), che consentiva l’eradicazione del virus mediante un innovativo meccanismo d’azione.
Recentemente lo sviluppo della seconda generazione di antivirali ad azione diretta ha ulteriormente migliorato le opzioni terapeutiche disponibili permettendo di trattare con successo anche i genotipi diversi dall’1, in molti casi con durate di trattamento più brevi ed un ottimo profilo di sicurezza.
La ricerca scientifica continua però a fare passi da gigante ed infatti a breve arriveranno ulteriori opzioni terapeutiche ancora più efficaci, pangenotipiche e con un miglior profilo di tollerabilità e sicurezza.
Esiste un vaccino per l’epatite C?
A tutt’oggi non esiste un vaccino per l’epatite C, soprattutto perché il virus è veloce e aggressivo, e quando si replica cambia in continuazione, riuscendo ad eludere il sistema immunitario dell'organismo. Ai pazienti affetti da epatite C viene però consigliata la vaccinazione contro le Epatiti di tipo A e di tipo B, per scongiurare il sovrapporsi di infezioni che accelererebbero la compromissione del fegato.
Fonte: Pro Format Comunicazione